Venerdì 23 aprile 2021 - ore 20:30


La geopolitica internazionale e le sfide dell’energia per il futuro

Venerdì 23 aprile 2021 alle ore 20:30, introdotti dal prof. Bruno Bernardi sono stati nostri ospiti il Prof. Davide Rossi, editorialista de “Il Corriere del Veneto” e docente presso l’Università degli Studi di Trieste e il dott. Andrea Bolla, Presidente e amministratore delegato di Vivigas Spa, società operante nel settore dell’energia.


“Mai come oggi le fonti energetiche si sono trovate al centro del dibattito internazionale: dalla preoccupazione per il cambiamento climatico in atto fino ai costi di produzione e alla fondamentale componente di strategie tecnologiche sul lungo periodo.

Dietro ai personaggi come Greta Thunberg si celano impatti e strategie molti rilevanti sia dal punto di vista sociale che della produzione e del consumo, senza tralasciare gli aspetti economici e normativi. La sfida vera che l’uomo ha di fronte non si ferma quindi alla “compatibilità ambientale”, ma si colloca al livello più alto della “compatibilità energetica”.

Ridurre l’estrazione e l’impiego dei combustibili fossili, sviluppare quanto più possibile tutte le fonti energetiche rinnovabili e procedere alla graduale ma decisa riduzione del consumo di energia, iniziando forse la più difficile delle transizioni verso il superamento della civiltà dei consumi”.

Il titolo del webinar di questa sera è davvero impegnativo: “Le sfide dell’energia per il futuro”.

Quale sarà l’energia del futuro? Si possono dare due risposte ed entrambe sono vere. Nessuno sa quale sarà l’energia del futuro. Molti sanno quale sarà l’energia del futuro. A fronte di una realtà tecnologicamente incerta, infatti, si associa una certezza che deriva da ideologie e da colossali interessi, oltre che da obiettivi (quelli di natura ambientale) in gran parte condivisi.

Il tema è vastissimo, quindi devo circoscrivere il modo in cui lo affronterò. Sono un uomo di mercato. Non sono un tecnologo, un economista o un politico. Sono un imprenditore che ha creduto nella liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas. Vivigas energia è nata con la liberalizzazione del mercato e dalla sua costituzione è cresciuta ininterrottamente, aumentando la sua offerta dal gas all’energia elettrica e oggi all’efficienza energetica. E’ cresciuta grazie ai tanti clienti che ci hanno scelto, avendo la libertà di poterlo fare. Vendere energia elettrica e gas, avere un rapporto costante coi clienti e aiutarli a individuare le soluzioni più efficienti per rispondere alle loro esigenze ci consente di vedere uno spicchio molto importante della sfida energetica. Nel dibattito pubblico e negli articoli sui giornali si tende spesso a immaginare un processo top down: qualcuno (lo Stato, le grandi imprese, le organizzazioni internazionali…) decide e tutti gli altri eseguono, come se fossimo ingranaggi di un’unica macchina. Non è così. I consumatori, con le loro scelte quotidiane di consumo, sono la controparte necessaria e fondamentale delle politiche pubbliche. Alle imprese di vendita spetta il compito di far combaciare questi due pezzi.

Posso quindi farvi un racconto un po’ diverso di questi anni di liberalizzazione, portando un punto di vista sicuramente parziale, ma che spero utile per poter ragionare di questi temi in maniera un po’ diversa.

Come nel famoso film Blade Runner potrei dirvi che… Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi (grazie al mercato)

In 20 anni ho visto il mercato trasformare un settore, malgrado pregiudizi e vincoli e realizzare cose ritenute impossibili. Come sapete, il prezzo dell’energia – come per molte commodity, dal petrolio al grano – si forma sui mercati all’ingrosso. Poi l’energia viene dispacciata e venduta ai clienti al dettaglio. Queste operazioni sono molto più complicate di quello che sembrano perché implicano l’interazione e il coordinamento di diversi attori, che hanno ciascuno obiettivi differenti, quali i produttori di energia (o gas), gli importatori, i gestori delle infrastrutture di rete, e così via. Una volta gran parte di queste attività erano riservate a un unico monopolista, che si occupava di tutta la catena. Oggi, con la liberalizzazione, diversi operatori possono competere tra di loro nella produzione e nella vendita, all’ingrosso e al dettaglio, di energia. Con quali conseguenze?

Alcuni esempi in ordine sparso:

  • ∙Si è ridotto il differenziale del prezzo all’ingrosso tra i mercati esteri e l’Italia, anche attraverso l’azione di aziende non incumbent che quando sembrava impossibile hanno fatto contratti di acquisto con l’estero, hanno preso rischi e forzato i blocchi monopolistici

  • Gli USA da importatori di energia sono diventati esportatori ed il gas americano è arrivato da noi, grazie alla rivoluzione, creata dal mercato, dall’innovazione tecnologica, dalla finanza evoluta e da imprenditori coraggiosi, del cosiddetto shale oil e shale gas; i prezzi erano alle stelle… le forze del mercato hanno contribuito a farli scendere!!! Tra l’altro, è proprio grazie a questo se anche gli americani, negli ultimi vent’anni, hanno finalmente iniziato a ridurre le loro emissioni: il gas ha messo alle corde le più inquinanti centrali a carbone

  • Sempre grazie al mercato e al progresso tecnologico, abbiamo cominciato a trasportare il gas su larga scala non solo via tubo, ma anche via nave (in forma liquida): questo ha consentito di mettere in collegamento mercati, come quello europeo e quello nordamericano, che prima erano fisicamente separati

  • Il gas è arrivato da noi anche attraverso le navi e due nuovi rigassificatori, uno dei quali, a Rovigo, di tipologia off shore innovativa (un terzo rigassificatore, al largo della Spezia, esiste invece da molti decenni)

  • E’ arrivato il gas dell’Azerbaigian, attraverso il metanodotto TAP

  • Il prezzo del gas si è quasi disaccoppiato da quello dell’oil e dal dollaro (mentre in precedenza c’era una relazione quasi deterministica). Come trader, oggi mi preoccupo di più delle previsioni meteorologiche e dell’equilibrio domanda e offerta che dei mercati petroliferi o valutari!!!

  • La digitalizzazione, la domotica e l’elettrificazione di una crescente quota di consumi (inclusi, in parte, la mobilità, il riscaldamento e molti usi domestici) hanno dato forza al consumatore e ne hanno cambiato non solo i comportamenti, ma anche il mix di consumo: oggi la competizione non coinvolge solo i fornitori di elettricità e quelli di gas, ma spesso investe la scelta stessa se usare elettricità o gas (o petrolio) per soddisfare un determinato utilizzo.

Ho visto un settore crescere, innovarsi e soprattutto migliorare il servizio ai clienti, che oggi hanno scelte e qualità del servizio inimmaginabili al tempo del monopolio.

Il mercato però dopo venti anni è ancora incompleto, criticato incompreso e a rischio di ridursi se certi passaggi della transizione energetica non vengono gestiti con una visione di insieme

A volte mi sento un po’ Giovanni Drogo che aspetta i Tartari: i miei Tartari sono la fine del processo di liberalizzazione, dopo più di 20 anni! Infatti, gran parte di quello che vi ho raccontato riguarda la parte “a monte” del mercato. Ma c’è anche una parte “a valle” – il rapporto tra cliente e fornitore – dove l’innovazione ha faticato molto di più a imporsi. Ha faticato talmente tanto che siamo ancora molto indietro e sfruttiamo ben poco le opportunità che abbiamo a disposizione.

Come vi dicevo ecco perché mi piace raccontarvi il mio punto di vista. Un po’ sarò costretto a semplificare, quindi non voglio essere assolutamente “dogmatico”.

Ma visto che è una scuola di politica penso sia utile parlare di approcci sistemici, anche se parlare di mercato oggi è decisamente fuori moda, soprattutto quando di parla delle sfide dell’energia per il futuro.

Ritengo importante mettere sul tavolo questioni sparite dal dibattito, che lasciano spazi a scelte e comportamenti dei consumatori, delle aziende, dei mercati, che poi diventano acquisiti, cose fatte; se qualcosa deve cambiare che avvenga almeno nella consapevolezza. In fondo, se siamo così indietro è anche perché noi fautori della liberalizzazione e della concorrenza non siamo stati capaci di convincere l’opinione pubblica dei suoi potenziali benefici. Provo a usare questa opportunità per spiegare perché in gioco non c’è solo la facoltà di mille venditori di importunare i clienti chiedendogli di aderire a un contratto piuttosto che a un altro, ma molto di più.

Una breve premessa necessaria: la storia in breve della libertà di scelta nel mercato dell’energia

La libertà di scelta nel settore elettrico e gas nasce, sulla scorta dell’esperienza inglese, con le direttive europee tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Per la prima volta si riconosce che il cliente non può essere un’appendice passiva (un utente) ma deve avere la possibilità di agire da protagonista attivo (consumatore).

La libertà di scelta si basa sulla separazione tra attività a mercato e attività regolate: chi detiene l’infrastruttura lavora in regime legale di monopolio (è un monopolio naturale perché le reti non sono duplicabili). Deve garantire la terzietà rispetto agli operatori di mercato e ha l’obbligo di non fare altro. Ne parlo perché mi rendo conto che ancora adesso spesso questa separazione non è compresa e addirittura è messa in discussione strumentalizzando la cosiddetta transizione energetica.

Per effetto delle direttive Ue, dal 2007 tutti i consumatori (incluse le famiglie) hanno diritto a scegliere il proprio fornitore. Tuttavia, circa metà degli Stati membri (tra cui l’Italia) hanno mantenuto la facoltà di essere riforniti a un prezzo standard, stabilito non dal mercato ma dall’Autorità per l’energia.

In particolare, nel gas c’è un riferimento per il domestico, un prezzo variabile super efficiente fissato dalla autorità di regolazione che tutti gli operatori sono obbligati ad offrire (il prezzo di tutela). Nell’energia elettrica c’è un unicum europeo: si è creato un soggetto pubblico (acquirente unico, parte del gruppo GSE) che compra l’energia all’ingrosso e la rivende sulla base dei propri costi di approvvigionamento a dei soggetti monopolistici locali collegati alle società di distribuzione elettrica (l’Enel ha circa il 70% dei clienti) che a loro volta riforniscono i clienti finali a prezzi regolati (servizio di maggior tutela).

Vi faccio notare una differenza sostanziale: nel gas tutti i fornitori sono obbligati, nel loro portafoglio, a offrire anche la cosiddetta tutela. Nell’elettrico, invece, si è scelto di assegnare l’erogazione dell’offerta standard in regime di monopolio agli operatori collegati alle reti di distribuzione. Ci sono anche altre anomalie. Il nome (tutela e maggior tutela) tradisce il pregiudizio sui rischi del mercato. Inoltre, la forte presenza del pubblico, Acquirente Unico e Enel, giustifica la grande forza nello frenare lo status quo.

Invece la stessa UE ci dice che: dovremmo eliminare la distorsione dei prezzi, eliminare i prezzi regolamentati, incentivare la partecipazione non discriminatoria dei nuovi operatori. Eh già: perché l’esistenza di un prezzo regolato, specie se si chiama “tutelato” e quindi induce i clienti a non cambiare fornitore, tende a creare barriere psicologiche contro il cambio di fornitore. E questo danneggia non solo i concorrenti, ma anche i clienti, che possono non rendersi conto di quanto sia importante la libertà di scelta. Provate a interrogarvi: secondo voi nella telefonia mobile avremmo una concorrenza tanto vivace e offerte tanto diversificate e convenienti, se alla fine degli anni Novanta avessimo lasciato a Telecom il monopolio su un’offerta chiamata “maggior tutela”, anziché aprire il mercato alla concorrenza?

La demonizzazione del mercato: non c’è solo il prezzo…
e quale prezzo?

Spesso si dice: però i clienti che vanno sul libero mercato e abbandonano la tutela finiscono per pagare prezzi più alti. Anche qui: è contemporaneamente vero e falso. E’ vero nel senso che molte offerte sul libero mercato costano più del servizio di tutela (mentre altre costano meno, anche molto meno). Ma in genere, si tratta di un confronto sbagliato. Molte offerte contengono elementi aggiuntivi: prezzi bloccati; loyalties con sconti su altri prodotti, garanzie di qualità di servizio (come nel prodotto “soddisfatti o rimborsati” di Vivigas energia), solo energia verde, servizi televisivi/telefonici, ecc. Quindi non si tratta di offerte direttamente confrontabili con la tutela. Sarebbe come dire che il pranzo in un ristorante stellato costa di più del cibo precotto acquistato al supermercato, senza considerare la qualità degli ingredienti, la perizia dello chef, le caratteristiche del servizio al tavolo anziché su una panchina al parco, e così via. Le offerte di tutela, dicevamo, contengono il mero approvvigionamento della commodity (senza servizi aggiuntivi) a un prezzo variabile aggiornato trimestralmente. Se confrontiamo pere con pere, cioè li paragoniamo attraverso i comparatori ai prezzi variabili standard disponibili sul mercato, ci sono risparmi tranquillamente superiori al 20%.

Insomma, oggi basta interessarsi e uno può gestire al meglio i propri acquisti di energia: ovviamente, come in molti altri nostri processi di acquisto da consumatori, abbiamo l’onere di informarci, fare delle scelte, cambiarle se ci rendiamo conto di aver sbagliato, premiando le offerte migliori e penalizzando quelle peggiori. E, se vogliamo contenere i costi, conviene periodicamente controllare se ci sono offerte migliori sul mercato. Lo dico contro il mio stesso interesse: ci sono quasi sempre!

In più, come vi dicevo e sono sicuro che molti di voi potranno confermarlo, il livello del servizio dal periodo pre-liberalizzazione è decisamente migliorato. Di certo lo confermano tutte le statistiche sugli indicatori di qualità: frequenza e durata delle interruzioni, soddisfazione dei clienti, numero e tipologia dei reclami, e così via.

Malgrado tutto questo l’Italia non riesce a fare l’ultimo passo: superare il regime dei prezzi di riferimento. Di rinvio in rinvio, oggi abbiamo una nuova scadenza a gennaio 2023. Sperando che non ci siano ulteriori slittamenti.

Ma oltre al rischio di un nuovo rinvio, oggi per il mercato c’è un nuovo pericolo: che la transizione energetica, cioè la necessaria riduzione delle emissioni e degli impatti ambientali, diventi il cavallo di Troia per tornare al monopolio.

Un fiume di denaro UE per la transizione energetica

Gli obiettivi li conosciamo: azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050 e taglio drastico del 55% entro il 2030 al di sotto dei livelli del 1990 (oggi siamo all’incirca a -20%, quindi neppure a metà strada, e ci restano meno di nove anni!). Fortunatamente l’Italia è uno dei paesi più virtuosi da questo punto di vista. Ma attenzione: più ci avviciniamo all’obiettivo più raggiungerlo diventa difficile. Se pesate 100 kg, perderne 5 può sembrarvi facile: basta qualche sacrificio. Ma se pesate 60 kg, perderne 5 può essere maledettamente impegnativo! L’impatto del Covid dà l’idea dello sforzo titanico da fare: bloccando tutto nel mondo le emissioni sono scese del 6% nel mondo e dell’11% in Europa, a fronte alla peggiore recessione dal secondo dopo guerra. Inoltre, abbiamo tagliato le emissioni nel modo sbagliato: abbiamo emesso meno perché il sistema economico ha prodotto meno. La grande sfida è quella di emettere di meno senza rinunciare al nostro benessere e al nostro tenore di vita e, anzi, aiutando i paesi più poveri a continuare a crescere. Ecco perché è in arrivo un fiume di denaro dall’Unione europea, che ha destinato alla transizione energetica il 25% del bilancio pluriennale 2021-27 e il 37% di Next Generation EU.

Piano Nazionale di ripresa e resilienza

Il Piano Nazionale di ripresa e resilienza dedica alla transizione energetica circa 70 miliardi di euro (su 191 rinvenienti dal Dispositivo europeo di ripresa e resilienza, a cui se ne aggiungono 13 da React EU e 30 da un fondo complementare alimentato da risorse nazionali, per un totale di 235 miliardi).

Per quanto riguarda le risorse per la transizione, 30 miliardi sono destinati alla efficienza energetica, 19 alla mobilità sostenibile, 15 alla tutela del territorio e 7 all’agricoltura sostenibile ed economia circolare. Attraverso quali strumenti?

In gran parte si tratta del rifinanziamento di incentivi già esistenti: superbonus 110%, incentivi alla mobilità elettrica, finanziamenti alle fonti rinnovabili. Se ben usati, questi soldi possono aiutarci a risolvere alcuni dei nostri problemi. Ma se impiegati male, possono fare addirittura danno. Tra i settori più delicati, ci sono proprio i mercati dell’energia elettrica e del gas.

Con tutti questi investimenti attenzione agli innamoramenti ed alle semplificazioni: attenzione allo spreco di risorse

L’economia non è il meccano. I sistemi energetici non sono un ingranaggio. Siamo di fronte a sistemi complessi dove molte parti interagiscono tra di loro per raggiungere un equilibrio dinamico. Riversare su questi settori una quantità immensa di soldi potrebbe consentire

investimenti rivoluzionari; ma potrebbe anche distorcere il mercato causando danni immensi nel lungo periodo. Vediamo quali sono i rischi contro cui dobbiamo vigilare.

a) scelta ideologica delle tecnologie

Si sovvenziona una tecnologia perché ritenuta migliore a prescindere o perché una lobby spinge di più. Se quella tecnologia non è la migliore, o se ne emergeranno di migliori in futuro, si rischia come minimo di sperperare risorse.

b) mancanza di una visione di insieme e pensare che bastino i soldi

Senza la semplificazione non si fanno i progetti: bisogna semplificare i processi autorizzativi.

Per conseguire gli obiettivi del PNIEC (piano nazionale integrato energia e clima) dovremmo costruire ogni mese impianti per 83 megawatt eolici e 250 megawatt fotovoltaici (oggi 6 megawatt eolici e 54 fotovoltaici). Il nostro paese sovvenziona generosamente i nuovi impianti, selezionando i progetti più meritevoli attraverso un sistema di aste: ebbene, nell’ultima asta sono stati assegnati solo 300 MW su 2.500 messi a gara. Come mai? Perché il vero ostacolo alla realizzazione di nuovi investimenti in Italia non è la finanza, ma la burocrazia. E non si può risolvere il problema burocratico alzando gli incentivi: in tal modo non si fa altro che regalare una rendita ai pochi fortunati che riescono a ottenere il via libera.

c) non essere capaci scegliere le priorità ed essere obiettivi

Ad esempio, è possibile tenere bassi i costi dell’energia e spingere con gli incentivi le rinnovabili? Tutti dicono che i costi delle rinnovabili sono sempre più bassi, ed è vero. Ma se queste tecnologie fossero pienamente in grado di competere non avrebbero bisogno di incentivi (anche al netto del tema autorizzativo di cui parlavo prima). Ecco: dobbiamo abbandonare l’ipocrisia perché non possiamo più permettercelo. Se i nostri consumi energetici sono soddisfatti in larga parte da fonti fossili è perché, dal punto di vista economico, queste sono ancora super competitive. Se vogliamo forzare un cambiamento, allora dobbiamo accettare che, almeno per qualche tempo, i costi dell’energia dovranno crescere. Ha senso chiedere di tenere bassi (per tutti e non solo per chi è in difficoltà) i prezzi dei combustibili fossili, spiazzando così le altre tecnologie? In fondo, il modo migliore per scoraggiare il consumo di un bene è aumentarne il prezzo. Ecco perché un pezzo importante della transizione consiste nel carbon pricing, cioè nel fare in modo che chi inquina paghi. E questo, naturalmente, aiuta le fonti alternative a farsi strada, senza favorire l’una o l’altra ma premiandole in modo non discriminatorio in funzione del beneficio ambientale a cui danno luogo.

d) distorcere con i sussidi

A differenza del carbon pricing, che “punisce” le fonti inquinanti senza scegliere i vincitori, i sussidi possono fare molto male. Facciamo un esempio oggi molto discusso. Il caso degli incentivi europei al fotovoltaico: abbiamo raggiunto un quota rilevante di produzione da Fonti di Energia Rinnovabile, e questo è bene. Ma l’abbiamo fatto nel modo corretto? Solo in Italia spendiamo 12 miliardi all’anno per le rinnovabili (di cui la metà per il fotovoltaico), che passano dalle nostre bollette. Gli incentivi alle rinnovabili spiegano all’incirca il 25% della spesa elettrica di una famiglia italiana. In Europa abbiamo speso 60 mld all’anno rendendo meno competitive le nostre imprese, creando delle filiere industriali in paesi al di fuori dell’Europa ed installando pannelli, sovvenzionati, in paesi non proprio caratterizzati dal sole tutto l’anno! E, quel che è peggio, lo abbiamo fatto in modo molto inefficiente: per ogni tonnellata di CO2 non emessa abbiamo speso una cifra multipla di quella necessaria a ottenere lo stesso risultato con interventi a basso costo (per esempio l’efficienza energetica). In altre parole, a parità di riduzione delle emissioni abbiamo speso troppi soldi; o, a parità di spesa, abbiamo fatto troppo poco in termini di riduzione delle emissioni.

Avremmo potuto fare qualcosa di diverso? Ci sono percorsi alternativi? Come suddividere ruoli e competenze?

Andare nella direzione della neutralità tecnologica e fiscale

Bisognerebbe ripensare il sistema degli incentivi e la tassazione energetica per collegarle ai benefici creati, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata. Chi inquina paga, chi riduce l’inquinamento viene premiato.

Oggi il sistema delle tassazioni e incentivi è incoerente, irrazionale ed episodico (pensate ai bonus biciclette, monopattini, superbonus 110%, ecc…). Tutti questi strumenti, tra l’altro, hanno tipicamente durata annuale, e a ogni rinnovo vengono cambiati: questo impedisce a imprese e famiglie di pianificare gli investimenti nel lungo termine. Inoltre, una politica irrazionale e disordinata finisce per danneggiare i nostri settori industriali, a tutto vantaggio della concorrenza sleale da parte di paesi extra Ue che non hanno vincoli altrettanto rigorosi. Un possibile strumento per affrontare questo problema è la cosiddetta carbon border adjustment tax: una sorta di tassa sull’importazione di prodotti ad alta intensità di emissioni da nazioni che non hanno politiche per il contenimento delle emissioni. In tal modo, si cancella il vantaggio economico derivante dal fatto che i loro processi produttivi non incorporano i costi della tutela dell’ambiente. Ma, naturalmente, i paesi coinvolti (come la Cina o l’India) potrebbero non gradire… E questo implica che la faccenda va affrontata nelle sedi appropriate. Sappiamo anche della diffidenza già espressa da Biden rispetto all’idea europea di Carbon Border Tax. L’Europa però se vuole proseguire nella strada di leader nella transizione energetica deve mantenere un ruolo fermo e di leadership anche nella negoziazione di questi aspetti. Oppure trovare alternative altrettanto efficaci e credibili.

La politica ambientale passa anche dall’uso intelligente della fiscalità. Ma è un esercizio delicato perché c’è sempre il rischio di cascare dalla padella dei fallimenti del mercato alla brace dei fallimenti dello stato. D’altronde, le politiche vanno costruite e spiegate e bisogna anche rendersi conto dei loro aspetti più critici, cercando di correggerli. Per esempio, una politica di tassazione delle emissioni rischia di ricadere proporzionalmente di più sulle spalle dei ceti deboli, che hanno tipicamente una domanda più rigida e dedicano all’energia una quota maggiore del proprio bilancio famigliare. Bisogna per esempio trovare strumenti per alleggerire la pressione su queste persone. Altrimenti, si rischia di fare disastri: ricordate le proteste dei gilet gialli in Francia?

Non dimenticare l’importanza della libertà di scelta

Ancora una volta, dobbiamo evitare la tentazione di guardare alle cose solo dal lato dell’offerta. Dal lato della domanda si può fare moltissimo: ma bisogna partire riconoscendo al consumatore la sua dignità, i suoi diritti e la sua libertà. E, credetemi, la libertà di scelta può essere un potente alleato per la decarbonizzazione. Alzi la mano chi non vorrebbe consumare meno energia per riscaldare la casa o l’ufficio, contribuendo così a risparmiare sulla bolletta e salvaguardare l’ambiente. Ma l’efficienza energetica è una faccenda complessa: bisogna conoscere le alternative disponibili, finanziare investimenti a volte ingenti, e così via. Per questo il rapporto tra cliente e fornitore è fondamentale: la capacità dell’uno di scegliere ed informarsi è un naturale complemento del la volontà dell’altro di offrire soluzioni per non perdere il cliente. Parlo da venditore: se voglio trattenere i clienti, devo offrir loro un buon servizio a un prezzo contenuto. Se voglio che la mia società faccia un utile, ho un solo modo: andare incontro ai consumatori e soddisfare i loro bisogni. Che include anche offrire consulenze e trovare i modi migliori per finanziare gli investimenti. Insomma: non sono un venditore di commodity, ma un fornitore di un servizio sempre più complesso e articolato, che investe dimensioni molto più ampie della mera misura e fatturazione dei volumi di energia venduti.

Uscire dallo schema “imprese cattive” e “consumatori incapaci”, dando fiducia ad entrambi, aiutandoli con contesti di regolazione chiari e processi di formazione dei prezzi trasparenti è la via migliore per mettere a frutto la loro relazione, anche nell’ottica della transizione.

Il ruolo del mercato

Di che cosa abbiamo bisogno? Di trovare qualcosa che non conosciamo, tecnologie pionieristiche che magari oggi nemmeno esistono. Dobbiamo sperimentare ed innovare. Oggi non sappiamo quali tecnologie e con che mix arriveremo al risultato della transizione energetica. Né possiamo saperlo: possiamo fingere di conoscere quali strade prenderà il progresso nei prossimi trent’anni, ma nella realtà è letteralmente impossibile. Se trent’anni fa ci avessero raccontato che, nel 2021, chiunque sarebbe stato in grado di fare videocall dal proprio telefonino dalla baita di montagna, nessuno ci avrebbe creduto. Eppure eccoci qui: ma se avessimo programmato investimenti pubblici e privati sulla base della conoscenza di allora, quali immensi valori avremmo distrutto?

E’ proprio in questi contesti che il mercato funziona, con la sua intelligenza collettiva. In un certo senso è la battaglia tra mercati aperti e competitivi e piani quinquennali! E’ una logica diversa da dire voglio tot fotovoltaico, tot eolico, tot di quest’altra fonte energetica e così via soprattutto su orizzonti decennali. Si tratta di dare una chance alla libera iniziativa degli individui: gli obiettivi sono noti e chiari ex ante (tagliare le emissioni) ma gli strumenti cambiano da luogo a luogo, e da tempo a tempo. Pretendere che sia altrimenti non ha mai funzionato, e non c’è alcuna ragione per credere che questa volta funzionerà.

Il ruolo della regolazione

Naturalmente questo non significa che l’intervento pubblico e la regolazione non abbiano un ruolo. Anzi: ne hanno uno fondamentale. Solo che non consiste nello scegliere le tecnologie o programmare minuziosamente gli investimenti dei prossimi trent’anni. L’esistenza di più tipologie di gas (metano, biogas, idrogeno), la produzione energetica distribuita, l’esigenza di accumulo, l’efficienza energetica, la digitalizzazione delle reti e le comunità energetiche hanno paradossalmente creato spazi di mercato per i monopolisti infrastrutturali, quei detentori delle attività regolate nate con le liberalizzazioni di cui vi ho parlato prima. Sono operatori che hanno condizioni competitive privilegiate rispetto agli operatori di mercato: godono di un vantaggio competitivo ogni volta che investono in ambiti diversi da quelli per cui ricevono la rendita regolata. Perché partono da una posizione di vantaggio legata all’accesso privilegiato alle informazioni e alla facoltà di determinare, con le proprie politiche di investimento, la fattibilità degli investimenti altrui.

La transizione energetica rischia di mangiarsi la concorrenza, riproponendo la integrazione verticale tra infrastrutture e attività commerciale. Questo va evitato. È un dibattito che per adesso rimane molto tecnico, solo settoriale; altrove, nei media, nella politica, non esiste e sembra non interessare. In una logica quasi da “economia di guerra”: dobbiamo raggiungere un obiettivo, non importa chi lo fa e come. Invece l’analogia della guerra non è mai stata più sbagliata. Una guerra è uno sforzo localizzato e limitato nel tempo. La transizione ci chiede di trasformare permanentemente il modo in cui produciamo e consumiamo energia. La mia paura è che si creino distorsioni di mercato, investimenti e scelte inefficienti, che non si potranno sanare una volta fatte. La regolazione deve evitare che questo accada, garantendo che ognuno faccia il suo mestiere.

Il ruolo dello Stato

Ecco allora il ruolo dello Stato: accelerare il processo, perché spontaneamente il mercato potrebbe metterci troppo. Deve aiutare le imprese a sperimentare ed innovare. Può lenire il dolore: la transizione non è un pranzo di gala; imprese chiuderanno, ci saranno lavoratori da formare e aiutare a ricollocarsi.

Ma questo è il contrario dello Stato imprenditore: non c’è oggi la tecnologia game changer, non si può applicare politica industriale “pianificata” ed approccio top down. Se diamo i fondi alla tecnologia sbagliata, li togliamo a quella vincente che potrebbe arrivare. Ce lo dice, da ultimo, il rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia su “net zero”: senza prenderlo per oro colato, lo studio pubblicato a maggio 2021 mostra che non possiamo ignorare nessuna strada, nessuna tecnologia, nessuno strumento. Dobbiamo usare tutto quello che abbiamo a disposizione. E soprattutto dobbiamo fare l’uso più intensi delle informazioni: evitiamo allora di mettere il potere assoluto nelle mani di qualcuno. Diamo agli arbitri il fischietto, e ai giocatori il pallone. Fare confusione non giova al risultato.

Conclusione

Il mercato ha prodotto degli effetti positivi nel settore dell’energia tradizionale, che vengono troppo spesso disconosciuti. Ancor oggi ci sono nostalgie di ritorno al monopolio pubblico. Il settore sta venendo rivoluzionato dalla transizione energetica. E’ una sfida enorme, sostenuta da un’enormità di fondi pubblici.

Come fare a spenderli al meglio? Il mercato, di cui quasi non si parla, può avere un ruolo? E’ evidente il mio punto di vista, dichiaratamente di parte sin dalle premesse. Eppure, nel mio essere di parte, metto sul piatto l’esperienza di un rapporto quotidiano coi clienti, che ho imparato a conoscere e sostenere, perché sostenendo loro, sostengo il mio business. Il rapporto tra fornitori e clienti è fondamentale perché consente di sperimentare contemporaneamente diverse strategie e tecnologie. I migliori vinceranno perché guadagneranno quote di mercato; ma i benefici andranno anche alla società nel suo complesso, perché non esiste progresso economico, sociale e ambientale senza questo continuo processo di tentativi ed errori. Che, però, funziona solo quando ognuno fa la sua parte: i regolatori scrivono le regole, i monopolisti infrastrutturali fanno sviluppare e funzionare le reti, i produttori e i venditori si occupano del servizio.

Spero di avervi fatto venire un po’ di curiosità ad approfondire questa tematica da una prospettiva diversa. Se ci sono riuscito, vi consiglio anche di provare a guardare il sito dell’Istituto Bruno Leoni.

Andrea Bolla