La strada verso Antiochia

di Alberto Barbaresco


A Rethimno, nella piazza di fronte al molo, Karl si godeva la leggera brezza serale di fine estate. Nell’isola di Creta, dopo 40 giornate intense ed assolate, la campagna di scavi era giunta al termine. Gli studenti che il prof. Maglio, direttore del corso di laurea in Archeologia, aveva affidato a lui, giovane ricercatore, intendevano festeggiare l’ultima serata nell’isola. Ragazze e ragazzi avevano optato per la discoteca. Karl era invece andato alla vecchia taverna del paese a sorseggiare un bicchiere di Metaxà. Costas, l'amico oste, gli confidò che lì vicino, all'ingresso del porto, vi era una iscrizione dedicata a un veneziano famoso. Arrivato sul posto Karl scorse una pietra scura, appoggiata ad un muretto, con una iscrizione poco visibile. Da buon archeologo la ripulì e illuminandola con il telefonino vide una scritta in latino che diceva: “Elia Levi che portò a Venezia le conoscenze del Levante. Morto in una tempesta. MLCXXIX”. Quel nome era a lui sconosciuto. Karl ritornò da Costas che gli disse che la lapide era stata voluta dal fratello di Elia, un famoso condottiero della flotta veneziana.

Domenica, durante il volo, continuò a pensare a quel nome, di chiara origine Israelitica. Si chiedeva soprattutto quali fossero state le conoscenze che aveva portato dall’Oriente quella persona che per caso aveva incrociato sulla sua strada. Arrivato a casa a Mestre, in Viale Garibaldi, dove viveva con la madre, si mise a cercare sui motori di ricerca qualcosa su Elia Levi senza alcun risultato. Lunedì mattina presto raggiunse la Biblioteca Marciana. Qui si presentò a Monica Bars, una preparatissima archivista che si era diplomata a Roma presso la Biblioteca Apostolica Vaticana che si mise a disposizione ed avviò le ricerche. Le capitava raramente qualcuno interessato scientificamente ai documenti della Repubblica di Venezia. I vecchi tomi, pesantissimi ed ingialliti, non erano di facile consultazione. L'Archivista spiegò che lei stessa assieme a 4 ragazzi volontari, stava creando un elenco informatico del materiale disponibile e che parte dell’archivio era stato digitalizzato. Dopo mezza giornata trovarono una citazione relativa a Eraldo Levi, capitano di nave, attivo in quegli anni nell’Egeo e nel Mar Nero al servizio della potente corporazione dei “Corderi”. Era probabilmente il fratello di Elia. La Bars disse che le migliori canape da intrecciare per fare le corde delle navi crescevano nel delta del Danubio sul Mar Nero, dove Eraldo Levi andava a rifornirsi. A metà pomeriggio Karl, scoraggiato, fece un bilancio negativo delle ricerche. Monica invece era più fiduciosa. Aveva sposato la causa dell'Archeologo e gli disse che avrebbe cercato ancora nei prossimi giorni tra i titoli digitalizzati. In caso di novità lo avrebbe chiamato. Karl la salutò velocemente, aveva in mente un nuovo ambito in cui effettuare le ricerche. Si diresse quasi di corsa verso il Ghetto. Sapeva che gli Ebrei veneziani conservavano gelosamente i segreti più reconditi e che i loro archivi contenevano documenti delle epoche passate. “Il museo Ebraico contiene cimeli antichissimi della tradizione religiosa” gli disse il Rabbino capo “Invece le cronache del ghetto e dei suoi più importanti protagonisti nei secoli sono riportate nei volumi della Stamperia Ebraica fin dalla fine del ‘500. Inoltre numerose testimonianze sono presenti in archivi privati”. Karl rafforzò le sue speranze. Il Rabbino lo congedò e gli fornì il numero del Professor Marzio Fortis, massimo esperto della cultura Israelitica Veneziana e direttore del coro della comunità Ebraica. Karl chiamò il Professore. L'indomani alle 17 si videro davanti alla Sinagoga Spagnola. Il Professor Fortis era un archivio vivente: “Se ben ricordo Elia Levi era un famoso medico del Ghetto nel '600”. Questa notizia rendeva per Karl ancora più suggestive le “conoscenze” che il medico aveva portato a Venezia. Il Professore lo fece accedere a documenti che erano custoditi presso una biblioteca privata che dopo la morte del proprietario era stata affidata alla Comunità: “l'Archivio Finzi”. Entrarono in una sala fredda e buia sotto alla Sinagoga del Canton. Qui erano accatastati vecchi volumi non aperti da anni. Dopo un'ora di ricerche Fortis si ricordò di un libro del 1878 sui medici ebrei di Venezia ma aggiunse che spesso i fatti ivi narrati erano molto enfatizzati e sconfinavano nella leggenda.

Il capitolo sui medici che nel '600 affrontarono le frequenti epidemie di Peste, parlava di Elia Levi. In città circolava la voce che possedesse un medicamento magico che guariva dalla Peste. Molte famiglie facoltose ricorrevano alle sue cure. Ma il fatto che fece scalpore avvenne nel 1629. Dicono che la Badessa delle suore Clarisse di San Zaccaria, preoccupata perché il morbo era entrato nel convento colpendo alcune consorelle, fece chiamare il Dottor Elia. Questi curò le religiose malate che guarirono e non chiese alcun compenso per il suo operato. La madre Badessa non voleva far sapere in città come si erano svolti i fatti ma commise un'imprudenza. Forse per liberarsi di un peso, raccontò tutto al suo Confessore Monsignor Vian. Il prelato confidò il fatto al nobile Alvise Soranzo che faceva parte del potentissimo Consiglio dei Dieci. Soranzo interrogò la Badessa. La religiosa riferì che sei suore che avevano contratto il morbo furono trattate con la lozione del Dottor Elia, cinque di loro guarirono ed una morì. Elia aveva spiegato che la pozione che usava era composta da tre erbe rare che egli aveva portato della città di Antiochia in Siria che venivano emulsionate con la resina dei cedri del Libano, scaldata con il fuoco e poi versata sulla lesione. Alla guarigione sulla pelle restava una grande chiazza rubra simile a un’ustione. La Badessa, colpevole di aver fatto entrare uno sconsacrato nella casa di Dio, fu punita e inviata come semplice suora in un piccolo monastero in Illiria, nell'isola di Arbe. Indi Soranzo convocò il medico e da quel momento non si seppe più nulla di Elia Levi. Karl concluse che l'autorità del tempo avesse deciso di cancellare tutte le prove e di allontanare Elia dalla città. Forse era stato mandato in esilio a Candia. Karl rimase assai scosso dalla vicenda. La sera telefonò al suo amico Corrado, che era Medico e si occupava di malattie infettive. “Toglitelo dalla testa che questa cosa possa fermare la Jersinia Pestis. Da quando fai l'Indiana Jones vedi solo intrighi!. Torna alla realtà”, ma poi Corrado continuò: “Aspetta!, forse c'è un punto da approfondire. La Jersinia è un batterio aerobio, ha bisogno dell'aria, dell'ossigeno per agire. Se poni sul focolaio di infezione la resina, isoli i batteri sotto quello strato, non guarisci il paziente ma potresti in teoria bloccare la diffusione del morbo all’esterno, ma solo in teoria. Mi informerò su questa cosa ma credo sia una bufala”. Karl era deluso. Nei giorni seguenti riprese la routine quotidiana convinto che in quella vicenda qualche elemento ancora mancasse. Gli sembrava di essere arrivato vicino all'obiettivo e di non averlo centrato.

Una settimana dopo con grande sorpresa ricevette una telefonata dalla Bars:”Venga!, ho trovato una cosa importante”. Karl da Padova la raggiunse velocemente. L’archivista gli porse un documento segreto del Consiglio dei Dieci con impresso il sigillo del Doge. Vi era scritto che il Consiglio stanziava 40 ducati d'oro per fare partire una nave con direzione Antiochia. Sulla nave doveva salire il medico Elia Levi con due aiutanti. La somma doveva servire ad acquisire: “molti sacchi di erbe medicinali scelte da Elia e numerosi barili con la resina degli alberi che egli indicherà”, al ritorno la nave non avrebbe dovuto sostare all’isola di San Lazzaro ma attraccare ai magazzini del sale, in punta della Dogana.

Quella nave non arrivò mai ad Antiochia. Fece naufragio al largo di Candia, l’odierna Creta. In quell'anno la Peste uccise 7.883 veneziani.