Ad-sidera

di Annachiara Rossi


7 novembre 1995

Sono passati ormai sedici mesi da quando sono entrata qui. Sedici mesi dalla prima volta in cui ho scritto sulle pagine di questo diario e mi sembra incredibile pensare che questa sarà anche l’ultima. Nonostante sia passato molto tempo, ricordo con chiarezza il giorno in cui i miei genitori mi portarono qui, disperati ma forse ancora speranzosi di potermi un giorno rivedere come la loro bambina. Non credo che in me vedessero più nessun barlume della ragazza che ero stata. Ho sempre pensato di non essermi opposta in alcun modo solo perché mi ero già arresa al mio destino. Mi sono ritrovata in un ospedale psichiatrico costretta a convivere con altre donne a confronto delle quali mi sentivo completamente sana. Non ho mai creduto di essere “pazza”, così come non lo credo nemmeno ora. Ero semplicemente “diversa” e la mia complessità non si adattava al mondo. Non riuscivo quindi a comprendere il motivo per cui venivo paragonata a schizofrenici e sociopatici.

La prima volta in cui ho parlato con il mio psichiatra non ho proferito parola e dopo trenta minuti si è dovuto arrendere. Durante la seduta successiva mi sono limitata a voler sapere la ragione per cui mi trovavo in quella gabbia di matti. Lui aprì una cartellina ingiallita, che probabilmente prima di me aveva contenuto i dati di altre donne che forse erano ormai uscite oppure che si erano arrese alla morte. Per quanto mi sforzassi di negarlo, ciò che c’era scritto era vero: “soggetto affetto da anoressia nervosa e depressione”. Mi ero ammalata due anni prima e da quel momento tutto era cambiato. Non saprei identificare una causa per la mia malattia. Forse ci sono cose destinate ad accadere e in fondo questo mio destino era già segnato. Forse un Dio, un’entità superiore o qualsiasi cosa ci sia oltre questo mondo voleva che mi ammalassi. È difficile parlare di anoressia senza cadere in banalizzazioni. Non ero una ragazzina viziata che ha smesso di mangiare per capriccio oppure per seguire una moda. Ero soltanto un’adolescente che voleva sentirsi speciale, che voleva valere abbastanza almeno per una volta agli occhi degli altri. Io volevo soltanto sentirmi amata, ed essere magra era l’unica ragione per cui qualcuno poteva volermi bene. Ovviamente i miei genitori si sono resi conto che qualcosa dentro di me era cambiato. Ormai ossessionata dalla mia immagine, mi sono disinteressata a tutto, chiusa in una bolla di apatia e insoddisfazione. Illudendosi che mangiare fosse la soluzione a tutti i problemi mi hanno costretto a recuperare il peso perso. Tuttavia mi sono ritrovata con una mente ancora malata, ma intrappolata in un corpo sano. Forse proprio da questa condizione è scaturita quella che i miei medici definiscono depressione. È stato difficile trovare una motivazione per questo mio costante senso di infelicità. Ho sempre dato la colpa agli altri, ma in realtà le radici del mio malessere affondavano dentro di me. Sono io ad essermi imposta aspettative troppo alte. Non erano gli altri ad aspettarsi tanto da me, ma io a pretendere troppo da me stessa. Pretendevo una perfezione irraggiungibile che mi ha portato a vivere ininterrottamente insoddisfatta.

È stato molto difficile parlare dei pensieri più cupi che la mia mente ha elaborato. Non è stato facile parlare della morte e di come per un periodo io l’abbia tanto desiderata. Prima di entrare qui ci pensavo spesso e non riuscivo a trovare una motivazione abbastanza forte per vivere. Non credevo che la vita andasse apprezzata in quanto vita. La mia si stava rivelando una delusione e io mi sentivo sola, abbandonata nel mio dolore, incompresa da un mondo che mi considerava “pazza”. Ero davvero tanto stanca di soffrire, mi sentivo soffocare da una tristezza troppo opprimente. Non mi sono mai però spinta oltre questi pensieri, forse perché in fondo ho sempre saputo che, per quanto intenso possa essere il dolore, provare qualcosa è meglio di non provare niente. L’idea della morte, nonostante in alcuni momenti mi sia sembrata l’unico modo per essere davvero libera, è sempre risultata troppo angosciosa e io non ho mai osato avvicinarmi a lei. In questo mio percorso sono state fondamentali le persone che ho conosciuto. Ho trascorso le mie giornate con donne, abbandonate qui dalle proprie famiglie, di cui nessuno voleva più occuparsi. Ho conosciuto il dolore di madri, sorelle e figlie che non sapevano più se potevano ancora ritenersi tali, private della propria identità e fatte sentire sbagliate.

Ci aiutavamo però a vicenda, cercando di condurre per quanto possibile una vita simile alla normalità. Sono state tante coloro che mi hanno in qualche modo cambiata, ma sicuramente non dimenticherò mai la mia compagna di stanza. Lei è uscita poche settimane fa dopo un ricovero per aver tentato il suicidio. Ogni giorno annotava almeno tre cose belle che le erano accadute durante la giornata, così trovava ogni giorno almeno tre motivi per vivere. Da fuori sembrava la più serena di tutte, sempre sorridente e pronta a consolarci nei momenti di difficoltà. Tuttavia nessuno poteva immaginare la sofferenza che aveva dentro. La notte cercava di soffocare i singhiozzi nel cuscino. Non so se sapeva che io la sentivo, ma in ogni caso non ho mai voluto affrontare la questione perché per una ragazza come lei mostrarsi in tutta la sua fragilità era troppo difficile. Con il passare delle settimane, però, le notti erano sempre più silenziose e lei iniziava a stare davvero meglio. La serenità che ho visto nel suo sguardo quando è stata dimessa mi ha fatto capire che mi sbagliavo. Nessuno di noi è destinato all’infelicità, perché siamo noi che scegliamo quale percorso intraprendere.

Domani verrò dimessa anch’io. Per i medici sono “guarita”. Non credo sia giusto parlare di guarigione, perché si guarisce con l’aiuto di qualcuno o qualcosa di esterno. Io ho trovato dentro di me la forza di sconfiggere le mie paure più grandi e ho così scoperto una tenacia che non sapevo di avere. Mi sentivo sola perché non sapevo convivere con me stessa. Ad oggi sono fiera di me e non rinnego il mio passato. Non mi vergogno di dire di essere stata anoressica, depressa e ricoverata in un ospedale psichiatrico. Oggi in realtà io sono la stessa ragazza che sedici mesi fa è entrata qui, ma con tante consapevolezze in più. Oggi sono consapevole di avere un valore, indipendentemente dal pensiero degli altri, perché valgo ai miei occhi. Ma soprattutto sono consapevole di poter scegliere e oggi io scelgo la vita. Scelgo la vita perché anch’io posso, voglio essere felice e forse lo sono già perché, in libertà, ho scelto proprio questa strada.