Ritorno a casa

di Chiara Pizzati


Siamo quelli che siamo grazie alla nostra storia, alle esperienze che abbiamo vissuto e che sono scolpite nel nostro cuore. Nonostante tutto quello che aveva passato, S. stava finalmente tornando in Italia, in quella che ormai considerava la sua casa, il suo rifugio. Guardando dal finestrino dell’aereo la terra dove era nato, la terra in cui la sua vita era cambiata, iniziò a riflettere, a ripensare ai mesi passati. Iniziò a ripercorrere alla rovescia la sua vita fino a quel momento: l’incidente, il bracciale di sua madre, le parole del vecchio, la partenza, il lavoro in Italia, lo sbarco in Sicilia, il barcone, la sua famiglia adottiva, la sua vera casa. Il puzzle della sua vita aveva finalmente cominciato a prendere forma e i pezzi a combaciare. Tutto per la prima volta sembrava avere un senso: conosceva finalmente la sua storia. S. arrivò in Italia senza volerlo, nel 2011, dopo essere stato cacciato dalla Libia ai tempi della rivoluzione contro Gheddafi. Successe tutto così in fretta: strappato al suo lavoro da pochi soldi e spinto a bordo di uno dei tanti barconi, partì per quello che venne poi definito il “viaggio della speranza”. La speranza che tutto sarebbe finito presto, che quelle onde che gli bagnavano il viso e gli ricoprivano i vestiti di salsedine sarebbero sparite, che quelle urla e pianti di madri e bambini, schiacciati dalla troppa gente, avrebbero potuto finalmente tacere. Soprattutto, la speranza di trovare finalmente una terra disposta ad accoglierlo. Come molti, sbarcò in Sicilia e venne spedito verso Padova, dove venne accolto da una delle tante organizzazioni. Fin da subito si era dimostrato un ragazzo molto solitario e taciturno: viveva isolato dagli altri, sembrava quasi cercare in tutti i modi di allontanarsi dal mondo che lo circondava, forse per rinchiudersi in sé stesso, l’unico che, aveva imparato con il tempo, non lo avrebbe mai abbandonato. Non sapeva né leggere né scrivere e presto gli operatori della cooperativa si accorsero che durante la notte non dormiva quasi mai, quasi che il suo sonno fosse attraversato da chissà quali incubi. Nel 2013 il governo decise che i programmi di accoglienza dovevano terminare con la concessione di un permesso umanitario per tutti, ma gli operatori insistettero perché lui non fosse lasciato come gli altri: sembrava troppo fragile e sprovveduto per farcela da solo. In qualche modo la cooperativa gli trovò una stanza e un lavoro come addetto alle pulizie di un suo albergo e S. cominciò pian piano ad ambientarsi e a guadagnare qualcosa. Con il tempo, gli fu trovato un alloggio presso un sacerdote di Padova, che aveva una canonica troppo grande e vuota e un cuore ancora pieno dell’idea che accogliere significa davvero fare spazio a qualcuno nella propria vita. Poco alla volta i pezzi della sua vita si stavano ricomponendo e con il passare del tempo le fatiche e le difficoltà diminuivano. Restava però ancora un’ombra nel suo cuore, un punto interrogativo a cui doveva a tutti i costi trovare una risposta. Quale era la sua storia? Sapeva ben poco della sua infanzia, quel poco però che gli era stato detto lo aveva sempre cercato in tutti i modi di dimenticare, non aveva mai voluto crederci: i suoi genitori erano stati uccisi quando lui aveva solo due anni e lui venne affidato ad una famiglia algerina. Non aveva mai amato il suo nuovo padre e, diventato più grande, era partito per cercare fortuna in Libia, da dove poi era stato cacciato in Italia.

Questo era tutto quello che S. ricordava. Non aveva mai avuto nessun contatto con la sua famiglia d’origine ma, proprio perché pian piano si stava ricostruendo una vita, sentiva sempre più forte il bisogno di cercare risposte, di ripercorrere la strada della sua vita fino a dove tutto era iniziato. Nonostante sapesse che questo passo sarebbe stato difficile, che avrebbe rischiato di perdere tutto quello che finalmente aveva cominciato a trovare, aveva deciso comunque di partire e andare a scoprire la sua storia. Si era messo in contatto con un legale del suo paese d’origine, il Mali, che lo avrebbe aiutato a riannodare i fili del suo passato. L’avvocato al quale si era affidato era riuscito a ricostruire dove era nato, una piccola cittadina ai confini con l’Algeria. Quando vi giunse, non c’era tanta gente per le strade: nessuno sembrò far caso al nuovo arrivato, se non un vecchio che rimase immobile, con gli occhi che brillavano, quasi avesse visto un miracolo. Il vecchio era un amico di suo padre, che per tutto quel tempo aveva sperato, aveva pregato per avere notizie del ragazzo. I due si sedettero e il vecchio iniziò a raccontargli la storia che tanto desiderava conoscere: la sua storia e quella dei suoi genitori. S., musulmano osservante, scoprì che i suoi genitori erano cristiani, fieri della propria fede in un paese a larghissima maggioranza musulmana. E che proprio per questo erano stati uccisi dai fratelli di suo padre. S. era sconvolto: perché proprio alla sua famiglia? Come si può arrivare ad uccidere un proprio fratello solo perché la pensa diversamente da te? Erano queste le domande che lo tormentavano. Il vecchio continuò: S. era stato affidato ad una famiglia algerina alla quale lui stesso aveva mandato ogni mese dei soldi perché il bimbo potesse crescere felice, costruendosi quella vita migliore che in Mali gli era stata negata. Solo in quel momento S. si rese conto che i soldi che vedeva incassare dalla sua famiglia in realtà erano per lui. Lui che invece era stato cresciuto e trattato come un servo: lo mandavano a pascolare le pecore tutto il giorno, nessuno gli aveva mai insegnato a leggere o scrivere e l’unica cosa che aveva imparato era rinchiudersi in sé stesso creando uno scudo che lo proteggesse dall’inferno che lo circondava. Prima che si dividessero, il vecchio lo portò ai piedi di un albero, non molto distante: lì erano sepolti i suoi genitori. S. cadde a terra, in ginocchio e cominciò a piangere, sempre di più. Le lacrime che fino a quel momento aveva tenuto strette dentro di sé, uscirono tutte insieme fino a bagnare il terreno sotto di lui, dove c’erano mamma e papà. Il vecchio gli diede poi un’ultima cosa: un bracciale di sua madre, che ancora oggi S. porta tutti i giorni al polso. In quel momento S. capì che avrebbe continuato la sua lotta per onorare la memoria della sua famiglia, quella famiglia che aveva sempre desiderato e che gli era stata strappata troppo presto. Decise allora di recarsi in tribunale per riappropriarsi di ciò che era suo e dei suoi genitori: i terreni e la casa di cui, dopo averli uccisi, si erano appropriati i parenti di suo padre. Riuscì ad ottenere quello che aveva voluto, nonostante le minacce quotidiane. Tutto sembrava andare per il meglio, quando 5 giorni prima del suo rientro in Italia, S. venne investito da una moto a tutta velocità che lo lasciò per terra, ferito e con il sangue che gli colava dalla testa. Mentre veniva trasportato in ospedale, gli rubarono i suoi documenti, con i quali avrebbe dovuto tornare in Italia. S. si salvò ma gli dissero che questo era solo un avviso, la volta dopo lo avrebbero ucciso. Era solo, gravemente ferito, ma scoprì di poter contare sull’aiuto della piccola ma fiorente comunità cristiana che si stava sviluppando nel suo villaggio.

Dopo molti mesi riottenne i documenti e tornò in Italia: ce la aveva finalmente fatta. Questa è la storia di S., un migrante economico ma prima di tutto un uomo. S. non sapeva leggere né scrivere, ma ha saputo guardare negli occhi un passato atroce per poter riprendere a camminare, capendo che per dare la giusta direzione alla strada della sua vita doveva tornare al principio, alle sue origini. Ha saputo chiudere un cerchio nella sua storia e adesso, forse, può guardare finalmente avanti. Con una ferita che ancora sanguina nel cuore ma anche con un bracciale al polso e un sogno nell’anima: quello di tornare in Mali per aprire un orfanotrofio per tutti quei bambini ai quali, come a lui, è stato tolto tutto.