Le strade di Aldo

di Enzo Tataranni


Lo zio Aldo era un uomo buono e io gli volevo bene. Nei miei primi anni di vita io e mia madre vivevamo insieme a lui, nella casa dei miei nonni; è stato la cosa più vicina ad un padre che io abbia mai avuto. Me lo ricordo che sistemava una nuova ringhiera sul terrazzo, l'altra era poco sicura e aveva paura che giocando io cadessi di sotto. Faceva lo spazzino, e quasi ogni giorno mi portava un regalo, giochi quasi nuovi, fumetti non troppo sgualciti, dischi che suonavano melodie misteriose, che non si sentivano alla radio; mi pareva nessuno le avesse mai ascoltate prima. La spazzatura contiene tesori, ma lo sanno in pochi, mi diceva Aldo, giusto io e qualche barbone; e forse anche i gabbiani, mi diceva, li vedo volare in cerchio sopra la discarica, sempre là, sopra la monnezza, loro che potrebbero volare liberi, sopra il mare, o ovunque nel mondo. Mio zio Aldo era anche un alcolista. Non riesco a pensare a lui senza vederlo con un mezzo bicchiere di bianco in mano. La mattina si alzava prestissimo per andare al lavoro, che era ancora buio; e quando rincasava era già ubriaco, non pranzava, andava dritto a letto e dormiva gran parte del pomeriggio. Lo zio è stanco, si alza presto, non lo disturbare mi diceva mia madre, ma io lo sapevo perché dormiva. Quando si alzava ricominciava a bere, ciondolando per casa con il bicchiere in mano, e beveva, beveva e parlava. Mi raccontava storie di famiglia, o della sua infanzia, di come a 6 anni lo avevano mandato da solo in un sanatorio in montagna a curarsi i polmoni, lui che era figlio di pescatori lo avevano mandato in montagna, lontano dalla famiglia e da tutto.

Raccontava di quanto si sentisse solo e abbandonato, di come passasse le notti a piangere. Era stato lì, a 6 anni, che aveva cominciato a bere. Le suore a pranzo davano mezzo bicchiere di vino, e lui ci aveva preso gusto, e beveva anche quello degli altri piccoli pazienti quando riusciva. Tu non cominciare mai, mi diceva, mio padre beveva e il padre di mio padre prima di lui; e neanche il tuo di padre era un santo, la genetica non è un'opinione, non assaggiarlo neanche il vino, mai. Non è che non si possa smettere, mi diceva, io stesso ho smesso molte volte, per pomeriggi interi; è non ricominciare che è impossibile. Aveva questo gusto per le frasi altisonanti, dentro di me c'è un poeta, diceva, purtroppo nessuno mi ha insegnato a scrivere. In effetti aveva delle enormi difficoltà a scrivere qualsiasi cosa, faceva errori assurdi, invertiva le lettere. Penso fosse disgrafico, adesso si direbbe che ha un disturbo specifico dell'apprendimento, ma all'epoca, ripresa la scuola una volta tornato dal sanatorio, lo correggevano a bacchettate sulle mani, o mettendogli un cappello da asino in testa e portandolo così in giro per le classi. Mi hanno dato la licenza elementare solo perché non ne potevano più di vedermi, diceva, ma io non sono stupido, sono loro che non sapevano insegnare. Eppure, sai, anche adesso che sono un uomo, dopo tanto tempo, diceva, dentro di me c'è ancora quel bambino solo e maltrattato; e piange tutto il tempo. Diceva anche che dentro di lui c'era anche un pazzo furioso, che era meglio per tutti se restava sempre ubriaco, non avete idea di che casini combinerei se smettessi di bere, il mondo mi fa troppo schifo. Questo era quello che rispondeva a mia madre quando lei gli diceva, e glielo diceva spesso, che non poteva continuare così, che doveva smettere. Certo, casino ne faceva anche bevendo. Ricordo certe serate con lui barcollante che cerca le chiavi della macchina che mia madre aveva nascosto per non farlo guidare in quelle condizioni, e ricordo le urla e le bestemmie e i piatti rotti e le porte che sbattono.

Il giorno dopo veniva a scusarsi con me, schiacciato dalla vergogna, perdonami mi diceva, ho esagerato; faccio un lavoro di merda, non è facile. Se tu le vedessi le mie strade, tutti gli altri netturbini hanno strade migliori, le mie strade sono le più lunghe, le più sporche, e io le devo spazzare tutte. Il mio è il peggior lavoro del mondo, il più schifoso, mi diceva, ma non lo farò per sempre, sto mettendo via dei soldi, un giorno mi licenzierò e andrò in giro per il mondo, non starò tutta la vita a guardare la spazzatura, non farò come i gabbiani della discarica, io me ne andrò. Non so, forse non metteva via abbastanza soldi, fatto sta che non ha mai messo in atto le sue fantasie di fuga, ha continuato a fare lo spazzino fino alla fine dei suoi giorni. Ce ne siamo andati via io e mia madre invece, a vivere con il suo nuovo compagno. Ma andavo a trovarlo spesso, finché ero ragazzo. Lo trovavo sempre solo, sempre a casa. Mi vedeva e cominciava a parlare, sempre continuando a bere, sempre con meno lucidità, saltando da un argomento all'altro e pretendendo di essere un esperto in qualsiasi campo; continuava a parlare finché non me ne andavo.

Non mi parlava mai davvero di lui però, del perché della sua solitudine, semmai ci girava intorno, ragionava del futuro o del passato, mai del suo presente. Il suo eloquio non aveva più la brillantezza e la leggerezza di una volta, era diventato greve, pieno di un odio sommesso, insidioso, rimasticato continuamente fra i denti, un odio amaro, che lo sfiniva e lo sporcava. Odiava il suo lavoro, odiava i padroni e i sindacati complici dei padroni, i politici che lo mandavano in pensione sempre più tardi e quelli che quei politici li votavano. Odiava l'autunno che riempiva le sue strade di foglie, e l'inverno con il gelo che gli mordeva le mani stanche di reggere la scopa; odiava il natale e il consumismo che genera troppa spazzatura, e il carnevale con i suoi coriandoli, dio quanto odiava i coriandoli; ma odiava anche la bella stagione, così, senza motivo. Stare con lui era sempre meno gradevole, e io ho cominciato ad andare a trovarlo più di rado, specie dopo che mi ero trasferito, con la mia ragazza, in un'altra città. Non ho mai pensato potesse succedere qualcosa di grave però, mai, neanche quando l'ho trovato con gli occhi pesti per una rissa da bar; neanche quando aveva sfasciato l'auto in un brutto incidente, uscendone miracolosamente illeso. Sono gli inconvenienti del mestiere di bevitore, diceva alzando le spalle.

Una notte l'ho sognato, nel sogno Aldo era vestito molto elegante. Si scusava per non avermi invitato alla sua festa, avrei dovuto scriverti una lettera ma sai che non sono capace, mi diceva. Mi svegliai. Quel giorno non lavoravo, e decisi di andarlo a trovare. L'ultima volta lo avevo visto a Natale, un paio di settimane prima; mi aveva detto solo di essere stanco, molto stanco. Ero già in macchina quando mi ha telefonato mia madre per dirmi, piangendo e ululando di dolore, che lo zio Aldo si era impiccato. Sono arrivato a casa sua poco dopo l'ambulanza, il medico stava constatando la morte. Era steso a terra con la maglietta alzata, aveva il viso paonazzo ma la pelle del petto bianchissima, come se non avesse visto mai la luce del sole. Cercammo a lungo un biglietto di addio, ma io lo sapevo già che non c'era. Si era impiccato alla ringhiera del terrazzo, quella che aveva sistemato perché io non mi facessi male; l'aveva sistemata bene, non c'è che dire, solida. Sul tavolo del terrazzo era posato un bicchiere vuoto, l'ho annusato e non sapeva di vino. L'ultima cosa che lo zio Aldo ha bevuto è stato un bicchiere d'acqua. Avevi ragione Aldo, guarda che casino hai combinato non appena hai smesso di bere. Un suicidio è un atto di grande violenza, difficile da accettare per chi resta, scatena rabbia, domande, sensi di colpa.

Ci ho messo un po' a superare lo shock. Ma ancora adesso, tutte le volte che vedo un gabbiano volare, che sento un bambino piangere, che scendo a buttare la spazzatura, che vedo uno spazzino con la scopa in mano, tutte le volte che bevo vino e passo per le sue strade, tutte le volte che i marciapiedi si riempiono di foglie, o di coriandoli, io penso allo zio Aldo, alla sua pelle bianchissima. Penso allo zio Aldo tutte le volte che scrivo.