A senso unico

di Paola Brussato


Oggi è ritornato il sole, dopo giornate grigie, tristi e piovigginose, il tempo è cambiato. La primavera è ancora lontana, ma un rinnovato fervore nell’attività degli uccelli e un tenero verdeggiare qua e là fra alberi e prati, fanno presagire il suo arrivo imminente. Da questa stanza di ospedale dove sono stato ricoverato per il peggiorare della mia malattia, anche se me ne sto sdraiato a letto, ho un magnifico posto di osservazione e tanto, troppo, tempo disponibile. L’ospedale si trova in un luogo isolato in periferia ed è circondato da campi e strade secondarie. In fondo ad un filare di alberi, intravedo il cavalcavia e la strada provinciale che io percorrevo per andare al lavoro. C’è sempre molto traffico nelle ore di punta. Quanto tempo ho passato in coda nell’attesa che si sbloccasse la situazione!

Guardavo con angoscia trascorrere i minuti sull’orologio e io mi accorgevo, con angoscia, che sarei arrivato in ritardo. Era così importante, allora, rispettare la disciplina nel lavoro! Ora, per me, il tempo è scandito in modo diverso. In ospedale, si sa, la giornata inizia presto, anzi prestissimo. L’attività si svolge ininterrottamente, giorno per giorno, secondo una routine prestabilita: termometri, flebo, cateteri, punture, pastiglie, visite mediche, terapie varie ecc. Poi pranzi, visite di parenti, cene ed infine il riposo notturno per chi può. Io, purtroppo, dormo pochissimo. Sono qui da più di quindici giorni e ancora non si parla di dimissioni. Guardo l’orologio: fra poco è l’ora delle visite. Sento bussare alla porta e mi ritrovo davanti un collega della banca, uno con il quale, a dire il vero, non ho mai legato. È un tipo dissacrante, uno che ride di tutto e di tutti, ma è sempre stato molto abile nell’ingraziarsi le simpatie dei superiori, con tutti i mezzi, anche facendo la spia.

Dopo un breve saluto e frasi come: “Ti vedo bene, sai!”, “Tizio ti manda i suoi saluti”, “Caio mi ha chiesto di te “... Mi ha sciorinato tutto un repertorio di barzellette becere alle quali ho cercato di rispondere con qualche risatina, qua e là, tanto per farlo contento. Per fortuna, poco dopo, sono venuti a trovarmi i miei figli con i due nipotini, e lui con una manata sulla spalla a mo’ di saluto, se n’è andato promettendomi, però, di ritornare presto. I miei nipoti sono due frugoli che di angelico hanno solo l’aspetto mentre in realtà sono due incontrollabili terremoti. Dopo i baci e le carezze, sono seguiti salti sul letto, assalti a interruttori e manovelle, litigi e riappacificazioni, fino a che, con la promessa di un gelato, i due demonietti non si sono calmati. Con un po’ di sollievo, ma anche con grande malinconia, li guardo andarsene, mentre per terminare l’opera, uno tira il berretto all’altro ricevendo in cambio uno sgambetto.

Quando mi vengono a trovare, sono felice di vederli ma diventa per me sempre più faticoso stare in compagnia, fingere di star bene e dimostrare di essere ottimista. Il male, purtroppo, non mi lascia tregua, e il piccolo sacchetto che indosso sotto il pigiama per la terapia prescritta, mi dà a volte fastidio. Ora sono solo, il sole è tramontato e si è fatto buio presto. Gli uccelli se ne sono andati a dormire, mentre in cielo spuntano le prime stelle. Mi metto su un fianco e mi riposo un po’. I miei occhi, vagando per la stanza, vanno a posarsi sul tavolino di fronte al letto. Lì sopra, mio figlio Marco ha messo il magnifico cestino pieno di frutta che mi ha portato. Mandarini, pere, banane, mele e fragole fanno bella mostra di sé ed emanano un intenso profumo. Chiudo gli occhi e mi lascio trasportare in altro tempo e altri luoghi dai ricordi... Sono giovane e lavoro per un grossista di frutta a Venezia, il mestiere mi piace perché mi permette di usare una barca per il trasporto della merce che vado a caricare al Tronchetto. La barca è dipinta di azzurro, è grande ma facile da guidare. Con me c’è Piero, il mio collega, un omone col naso rosso a causa del freddo e delle frequenti libagioni; come tutti i veneziani ama fare battute facili e prendere un po’ in giro la gente, ma con bonomia, perché ha un animo buono e generoso.

È bello lavorare con lui! È mattina presto e fa molto freddo. Io sono coperto da un grosso giaccone scuro impermeabile, in testa ho un bel berrettone di lana da marinaio, mentre le mani sono riparate da guanti con la punta delle dita tagliate per permettere una migliore manualità. Purtroppo però il freddo intenso e l’umidità, mi provocano il fastidioso disturbo dei geloni, in dialetto chiamati “buganse”. Gentilmente, Piero si toglie i guanti, che sono più imbottiti dei miei, e li passa a me. Dobbiamo sistemare varie cassette e scatoloni di frutta e verdura nella barca, e dopo aver ultimato il carico, partiamo per raggiungere prima i clienti e poi la sede della ditta, attraversando le vie d’acqua che, come un sistema arterioso, frastagliano Venezia. Le strade per la consegna delle merci ai dettaglianti, sono sempre le stesse. Penso che potremmo inserire il pilota automatico e la barca se ne andrebbe da sola a destinazione.

Ho il dono di avere una bella voce tenorile, e lì all’aria aperta, mi sento felice, così sfoggio a beneficio del Piero e dei piccioni, tutto il repertorio di romanze cantate dal mio artista preferito Mario del Monaco: “Nessun dorma”, “Celeste Aida”, “Che gelida manina”... Note di musica meravigliosa che vagano volteggiando in laguna, appena disturbate dal rumore in sottofondo del motore. Ogni tanto, quando il canale gira a gomito, mi fermo per lanciare il fatidico “Pope”, così da avvisare della nostra presenza l’eventuale barca proveniente dalla parte opposta. Passiamo ogni giorno attraverso il magico spettacolo della città più bella del mondo, dove i palazzi, le rive, gli improvvisi campielli, i ponti storti o diritti, le miriadi di camini, le “bricole” e i muri scrostati raccontano una storia millenaria di bellezza e di gloria... Rivedo con la mente i vari percorsi, sento lo sciabordio dell’acqua e l’odore salmastro della laguna, mentre sotto la mia mano vibra, ruvido, il timone della barca. Mi sembra di avere in bocca il gusto del “cicchetto” e dell’ombra di rito, consumati a metà mattina, presso la fornitissima osteria dove ci fermiamo per una consegna. Questa sosta ci premia dopo Il lavoro pesante che facciamo volentieri perché ci sentiamo parte attiva nel mondo vivace che ci circonda.

Ma niente, purtroppo, dura per sempre. L’amore per una ragazza con cui desidero metter su famiglia, mi costringe a lasciare Piero e cercare un lavoro più sicuro e più ben pagato. Così, abbandono le mie amate strade nell’acqua per ritrovarmi chiuso tra le quattro mura di una banca a Mestre a fare il commesso. Stavolta sono carte e documenti che io porto in giro, non canto più i brani di opera, devo star zitto e fare lo zelante così da meritare una gratifica per la mia famiglia, ora allietata da ben tre figli. Con la macchina percorro altre strade polverose e trafficate, al posto del “Pope” ora uso i lampeggianti o semmai do un colpetto al clacson. Tutto va avanti, con alti e bassi. Il trantran quotidiano prende la mano, il cuore e il cervello. Fino a che, un brutto giorno, non ti risvegli con addosso un compagno non gradito, qualcosa di imprevisto e terribile che sconvolge la vita. Prima ti dibatti in una fase di incredulità e negazione dell’esistenza del male, poi speri disperatamente nella guarigione con l’intervento chirurgico e le terapie.

Alla fine, ti ritrovi in attesa di conoscere giorno per giorno cosa il destino ti ha riservato ben sapendo che non c’è molto da sperare...Sbuccio un mandarino e il profumo intenso mi fa lagrimare gli occhi... la causa è il mandarino o piuttosto la patetica commiserazione di me stesso? Non indago, succhio con avidità gli spicchi fragranti e lì, al buio, vedo la mia strada: nuova e a senso unico.