Aria di casa per il Colonnello

di Pierluigi Tamborini


Un uomo in fuga. Mi piace, ma sono combattuto. Chissà che cosa ne pensa il colonnello Suarez. Tra poco meno di un’ora sarò fuori da questo carcere senza sbarre e potrò ricominciare un cammino interrotto da troppo tempo. Uno sguardo al cielo: stelle dispettose e indifferenti e una luna esagerata. Non è la notte ideale per quello che ho in mente, ma non ho alternative. Loro sono sempre più insistenti, più pressanti e il colonnello Suarez sembra fregarsene. E’ stato inquieto tutto il giorno, ma adesso è tranquillo. Mi guarda dalla gabbia che lo ospita, con la sua livrea verde e blu e un’aria di superiorità e di comando. Maledetto argentino. E’ in una matrioska di prigioni, una dentro l’altra, ma sembra non sia un problema. Beato lui. Pensate sia pazzo? State tranquilli, non vedo le ombre e non sento le voci. Se mi hanno ricoverato qui è solo per una questione di eredità. Quando sarò fuggito vi posso dire che cosa succederà. I miei “cari” nipoti non perderanno un minuto e si rivolgeranno a “Chi l’ha visto?” Mi immagino già il senso del loro accorato appello: “Nostro zio è scomparso dalla casa di riposo dove era ospite. E’ affetto da demenza senile e ha bisogno di prendere ogni giorno le sue medicine. Aiutateci a ritrovarlo sano e salvo, è l’unico parente che ci resta.” Che tradotto vorrebbe dire: “Vecchio rincoglionito, chissà che ti ritrovino in qualche fosso così toglierai Il disturbo una volta per tutte e potremo mettere le mani sui tuoi soldi”. Poveri illusi, stanno tramando per farmi passare come incapace di intendere e volere, ma ho già messo a punto la mia strategia per quanto riguarda l’eredità. Ho in serbo per loro sorprese che non si aspettano. Non vedranno un centesimo. Meno di un’ora, il tempo di permettere a quel cerbero travestito da infermiere di fare un ultimo giro di controllo, poi scivolerò fuori dal letto, mi inoltrerò per i corridoi deserti e imboccherò un’uscita secondaria. E il colonnello verrà con me, sono affezionato a quel vecchio bastardo. Mi immagino il silenzio del parco, il senso assurdo di un’insegna al neon che recita: “Residence Anni Azzurri”. Ne dovranno ancora passare di anni, e di diversi colori prima che mi arrenda. Il grande cancello d’entrata è il problema più difficile da superare, ma non ho ottant’anni per niente e il denaro apre ben altre porte. E alla fine mi ritroverò nel posto più democratico del mondo. La strada. Poche centinaia di metri a piedi e vedrò le luci della macchina di Attilio. Quando è venuto a trovarmi, pochi giorni fa, abbiamo messo a punto gli ultimi dettagli. E’ già tutto pronto, svanirò nel nulla e mi godrò in santa pace il tempo che mi resta. Attilio è, o dovrebbe essere, il mio migliore amico, o forse l’unico amico che mi resta. Oltre al colonnello Suarez, ovvio. E’ affidabile? Credo di sì, ma in vita mia non mi sono mai fidato di nessuno, nemmeno di me stesso. Troppe volte ho avuto ragione, per questo il dubbio cammina sempre al mio fianco. Mentre sono qui, in attesa, ho l’irripetibile occasione di ripensare alla mia vita e stanotte un pensiero particolare mi è cresciuto dentro e non vuole saperne di andarsene.

Ho sempre creduto che le strade portassero ovunque. Mai però mi sarei immaginato che il nome delle vie dove ho abitato, avesse una qualche influenza sulla mia vita. Oggi mi accorgo che è stato così.

Da bambino abitavo in via Insurrezione. Che cosa volesse dire quella strana parola non me lo sono chiesto per anni. So soltanto che il nome mi suonava musicale, in-sur-re-zio-ne, e tanto bastava. Gli altri trascinavano la vita in vie scontate come Garibaldi o Mazzini, io no, io vivevo in via Insurrezione, ed era un motivo più che sufficiente per darmi una patina di nobiltà che in realtà non avevo. “L'insurrezione è un tipo di conflitto appartenente alla tipologia delle guerriglie e deriva da oppressione di un popolo sopra un altro, o di un governo sul suo stesso popolo. In quest'ultimo caso l'insurrezione può essere considerata essenzialmente la fase culminante del processo rivoluzionario.” Così recita il vocabolario. Nel mio caso il riferimento era al 1848 e alla cacciata degli Austriaci dalla città. Per me quel nome divenne vitale il giorno nel quale mi ribellai alla cinghia di mio padre. Insurrezione. Ma questo avvenne anni dopo quando avevo la stazza e l’età per tenere testa a un ubriacone incallito, che aveva quasi ucciso di botte mia madre. A volte penso che mi piacerebbe poter dire di avere avuto un’infanzia serena, ma non è andata così. Eppure quel reticolo di strade della mia città rappresentava una sorta di giungla privata, il luogo in cui lasciare da parte la quotidianità, il posto dove la bellezza, che per molti era morta, in realtà sonnecchiava, in attesa di tempi migliori. E allora era facile vedere, come in Blade Runner, “astronavi in fiamme sui bastioni di Orione”, quando si trattava soltanto di un’auto andata a fuoco sul bastione di via don Orione. Da uomo mi ero arricchito grazie alle mie capacità, le stesse che spesso trova in sé chi viene dal niente, avevo una moglie, un figlio e una casa da sogno sulla collina. Il posto dei ricchi lo chiamavano e non per nulla la via prendeva il nome di Col dell’oro. In quel piccolo regno ho assistito, dapprima con stupore e poi con rassegnata pazienza, al fenomeno della moltiplicazione di parenti e amici. Presunti lontani cugini parlavano di tempi mai vissuti, presunti compagni di scuola con i quali non avevi diviso nemmeno un’interrogazione, tutto presunto, nulla di reale, nemmeno l’oro, che luccicava, ma era soltanto il contorno di una vita, non degna di tale nome. Il sottoscritto a spaccarsi la schiena quindici ore al giorno, mia moglie impegnata in uno sport ossessivo e compulsivo denominato shopping, mio figlio indirizzato a folle velocità su un’autostrada sbagliata, il cui casello aveva una sola tragica uscita: overdose fatale. Da quel giorno è crollato tutto, ho perso la mia famiglia e sono rimasto ricco e solo. Ho lasciato la casa sulla collina dove non potevo più coltivare rose, ma solamente dolorosi ricordi. Così sono finito in un attico in via 4 novembre, un mese dai contorni tristi che in modo perverso sentivo confezionato come un vestito su misura. Poi gli anni si sono messi a correre e ho cominciato a inseguirli, ma non sono riuscito a tenere il loro passo. Mi sono ritrovato vecchio con una domanda che non la smetteva di farsi sentire. Come è stato possibile? Eppure succede a tutti e mentre te ne stai lì e ti chiedi il perché, ecco che arrivano le locuste sotto forma di nipoti. E allora capisci la lezione, devi imparare a difenderti, senza perdere altro tempo.

Ho percorso tante strade e non soltanto con le gambe. Anche dentro di me ho affrontato sentieri infiniti e quasi tutti in salita, lastricati di rimpianti. Ma sono ancora qui e non mi arrendo, non mi arrenderò mai.

E’ scoccata l’ora X. In pochi minuti eccomi nella democrazia d’asfalto, una valigia in una mano, la gabbia col colonnello Suarez nell’altra. Dietro la curva mi aspetto di vedere la macchina di un amico. Mentre tento di confondere l’ansia vedo le luci di un’auto ferma e... non è quella di Attilio. Non è venuto all’appuntamento, ma chissà perché, non sono così sorpreso. L’ultima volta che ci siamo visti faticava a guardarmi negli occhi e io, ormai lo sapete, non ho ottant’anni per niente. So che se la passa male e i “cari” nipoti avranno alzato la posta quando lui avrà rivelato loro le mie intenzioni. In questo momento ho ben altro per la testa e non ho né la voglia né il tempo di odiarlo. Devo soltanto salire sul taxi che avevo chiamato per tutelarmi e che mi sta aspettando. Ancora uno sguardo al cielo. Le stelle indifferenti e la luna esagerata concedono bagliori di luce alla loro noncuranza, illuminando la targa della via. Viale Buenos Aires. Lo prendo come un augurio. Per il colonnello Suarez è aria di casa, ma per me è aria nuova, aria buona, aria di fuga. Non mi resta che salutarvi. E ognuno per la sua strada.