Da Oban a Iona: strada di luce e acqua

di Virginio Gracci


Ero un ragazzino quando mia madre iniziò a parlarmi di Columba, un santo irlandese che nel VI secolo, con dodici compagni, si trasferì nella minuscola isola di Iona, sulla punta estrema delle Inner Hebrides a ovest della Scozia, dove fondò un monastero. Si deve a lui, tra l’altro, la conversione dei Picts, gli abitanti delle Highlands e, in parte, anche dei Vichinghi, gli antenati di mia madre.

Columba era nei suoi discorsi quando mi portava nella chiesa del nostro villaggio per il servizio della domenica o per una semplice visita in una delle tante altre chiese a lui intestate, sparse nelle varie parti della Scozia. Della sua vita conosceva vari episodi che mi raccontava come se fossero accaduti il giorno prima. Mi ripeteva, in gaelico o in inglese, versi a lui attribuiti o a lui dedicati da poeti scozzesi e inglesi in ogni tempo. Era sua intenzione portarmi un giorno a visitare la sua isola, da allora nota come Icolmkill, “Isola della Chiesa di Columba”, dalla pronuncia in gaelico del suo nome. “We’ll go there on foot” – mi diceva – “I’m sure you’ll cry out, wow, wow, before the ‘Wonder of Wonders’!”* Ma non vi riuscì perché purtroppo è mancata che io non avevo ancora dieci anni.

Morta mia madre anche l’interesse per Columba si affievolì a poco a poco per poi svanire quasi del tutto. Dico quasi perché negli anni di scuola il suo nome ogni tanto ricomparve: per esempio, nel libro di geografia, nella parte in cui erano trattati i numerosi laghi della Scozia, tra le pagine destinate al Loch Ness e alla sua conformazione, era inserito un passo preso dalla sua biografia in cui si leggeva come il santo avesse reso mansueto il mostro che viveva nel lago, dopo che lo stesso aveva addentato e ucciso un uomo del luogo.

Più tardi, al secondo anno di università, Columba rientrò di nuovo, questa volta in modo più incisivo nell’ambito dei miei interessi, quando si affrontò lo studio del poeta inglese John Keats. Nel 1818 egli aveva compiuto un viaggio a piedi nel Lake District con un amico, proseguendo poi attraverso la Scozia. In una lettera inviata al fratello Tom il 26 luglio, il poeta esprimeva il suo stupore nello scoprire solo allora l’esistenza di quell’isola remota, tanto ricca di storia e fascino di cui ne erano testimonianza le rovine e i resti antichi.

Così verso la metà di luglio 2018, duecento anni dopo John Keats, anch’io decisi di ripeterne l’esperienza. Partii da Edimburgo e raggiunsi Oban in treno in circa sette ore. Visto che era ormai sera, presi alloggio e cenai presso un hotel che neanche a farlo apposta si chiamava con il nome del santo. Nell’ordinare la cena, spiegai ad un giovane cameriere, gentile e simpatico come del resto sono tutti gli scozzesi, le mie intolleranze alimentari (peperoni e cipolla), il che non lo sorprese affatto come invece avviene spesso in Italia. Una volta servito il piatto con salmone al forno e verdure cotte al vapore, benché i tavoli fossero tutti occupati e il personale avesse il suo bel da fare, il cameriere trovò il tempo per tornare ogni tanto e sedersi al mio tavolo a scambiare qualche parola (Forse gli facevo tenerezza dato che ero solo e l’unica mia compagnia era un libro aperto a destra del piatto, a cui ogni tanto, tra un boccone e l’altro, davo un’occhiata). Naturalmente mi chiese se fossi diretto a Iona. Io gli dissi di sì: avrei preso il traghetto la mattina seguente per l’isola di Mull e da lì sarei arrivato al ferry di Fionnphort a piedi. “Beh, disse a voce alta, non sarai certo da solo!”.

Nel tavolo vicino erano seduti un ragazzo e una ragazza sui vent’anni. Evidentemente avevano seguito quanto ci eravamo detti con il cameriere. E così, ad un certo punto, si rivolsero a me con un sorriso, dicendo: “Noi pure siamo diretti a Iona a piedi. Inizieremo il nostro pellegrinaggio domani dopo colazione. Se vuoi, possiamo fare la strada assieme”. Io acconsentii. Poi mi presentai. Loro fecero altrettanto. Ciò che subito mi colpì fu il fatto che avessero usato la parola “pellegrinaggio”, “pilgrimage”, in inglese, per indicare il cammino. E poi i loro nomi: John e Fanny. Keats si chiamava John, infatti, e Fanny era il nome del suo unico grande amore, a cui dedicò versi sublimi come quelli di “Bright Star”. Quando lo feci notare loro e iniziai a recitare l’incipit, i due mi ascoltarono divertiti e lusingati.

Il giorno dopo ci trovammo nel battello, e dopo una cinquantina di minuti ci fu lo sbarco nell’isola di Mull. Da lì iniziammo il nostro cammino di 37 miglia, lo stesso percorso da John Keats e tutti i pellegrini che a partire dal VI secolo non hanno mai smesso di raggiungere Iona. E ne valse la pena. Nelle due giornate trascorse insieme si parlò delle nostre vite, delle nostre esperienze, dei nostri progetti futuri. Ci si

soffermò, in particolare, sulle motivazioni che ci avevano spinti a scegliere quella meta. Io raccontai di mia madre e del poeta inglese, di cui mi ero occupato anche per la mia tesi di dottorato. Per loro si trattava di motivazioni più profonde. Entrambi erano studenti di teologia presso l’Università di Glasgow. Me lo dissero la sera prima mentre eravamo nel ferry di Fionnphort, nei dieci minuti impiegati per lo sbarco a Iona. Dovevano scegliere che cosa fare delle loro vite dopo la laurea. Erano sicuri che avrebbero trovato le risposte in quella parte di “Terra Santa” del Nord, come l’aveva definita John Keats. Mi dissero convinti che avrebbero ascoltato la voce di Columba e dalle sue parole sarebbero dipese le vie che avrebbero intrapreso.

Inutile dire che io rimasi quasi incredulo di fronte a tanta risolutezza. In realtà, nei due giorni precedenti mi ero reso conto che i loro interessi andavano al di là dello studio. Quando io, lungo il percorso, recitavo versi di John Keats, loro mi ripetevano, con devozione e riverenza, passi dal Vangelo, soprattutto di Luca, o episodi della vita di Columba. Nell’accennare ai miracoli a lui attribuiti, lo facevano con la stessa enfasi che mi ricordava mia madre, senza mettere in dubbio una virgola di quanto era riportato nella biografia di Adomnàn, risalente al VII secolo. In un momento in cui io usai la parola “leggenda” per dire che nel corso del tempo le vite dei santi, come quelle delle grandi figure della storia, ne divenivano parte, fino ad apparire inverosimili, si dissero d’accordo, precisando però che la leggenda aggiunge sempre qualcosa a una base di verità preesistente e che quindi era importante saper distinguere, o meglio, intuire la verità. Devo ammettere che prima di allora non avevo mai incontrato né in Scozia, dove ho vissuto parte della mia vita, né in Italia ragazzi della loro età in cui fossero così radicati la fede e il loro desiderio di elevazione spirituale.

Una volta scesi ci siamo divisi dopo esserci scambiati email e numeri di cellulare, con il proposito di tenerci in contatto anche in futuro. Loro dovevano incontrare alcuni membri della “Ecumenical Community” che si occupavano della gestione dei luoghi sacri. Io intendevo fermarmi per qualche giorno, il tempo per visitare la cattedrale, l’abbazia e le antiche rovine, oltre alla “Columba Bay”, la baia dove il santo era sbarcato (e dove si raccolgono le perle verdi, note come le “lacrime di Columba”).

Nei mesi successivi ricevetti alcuni messaggi, quasi sempre formali, che con il passare del tempo divennero sempre più radi. Poi più nulla come era normale che fosse.

Un anno dopo, esattamente il 26 luglio di quest’anno (2019), con mia grande sorpresa mi è giunta una mail in cui erano evidenziate alcune righe, le seguenti: “Poche sue parole ci sono giunte, più forti del tuono. Sono bastate perché la nostra scelta fosse decisa: dedicheremo le nostre vite a Dio. Nell’ultima domenica di agosto saremo consacrati ministri della Chiesa Presbiteriana di Scozia nella cattedrale di Glasgow. Ci piacerebbe davvero che tu fossi presente alla cerimonia”.

“Ci andremo a piedi. Sono certa che griderai, oh, oh, di fronte alla ‘Meraviglia delle Meraviglie’!”