Ambra Federica Molin

Lungo il fiume


Oggi è il decimo giorno che mio fratello non c’è più, e il decimo giorno che io mi sento completamente vuoto. 

Giosuè è nato il 28 Dicembre del 2007. Quel giorno me lo ricordo perfettamente, anche se io avevo solo 5 anni.

Ero super emozionato al pensiero di avere un fratellino. A scuola tutti parlavano dei loro fratelli e io mi sentivo solo, finché era arrivato lui. Con gli anni si dimostrò un ottimo compagno di giochi e di marachelle, un bambino solare e curioso, ma allo stesso tempo molto timido e insicuro. Gli anni dell’infanzia sono trascorsi velocemente e senza troppe difficoltà, con mamma, papà e me vicino, sempre pronti a sostenerlo e spronarlo. 

Ci piaceva tantissimo fare le nostre escursioni con papà in montagna. Un giorno io e Giosuè abbiamo guidato papà fino al fiume che scorreva vicino alla nostra casa delle vacanze, questo fiume lo chiamavamo Scheggia perché per noi, che all’epoca eravamo bambini, l’acqua scorreva velocissima. Da quel giorno Scheggia era il nostro posto felice, per andare a pescare, per raccogliere sassi strani levigati dall’acqua, ma anche semplicemente per passeggiare e pensare, soprattutto quando eravamo tristi. Era come se il fiume, oltre a portarsi via l’acqua e tutti i detriti, si portasse via anche la nostra malinconia e le nostre insicurezze. 

Intanto crescevamo, gli anni passavano veloci: io approdai alle superiori, mio fratello dovette affrontare la nuova avventura della scuola media. Mentre io ero sempre stato alto e snello, portato per gli sport e atletico, Giosuè, nonostante fosse cresciuto in altezza, rimase con una corporatura robusta e, di questo ne soffriva abbastanza, se ne vergognava persino. 

La scuola media è iniziata senza nessun problema o almeno così diceva lui. Io con il passare delle settimane iniziai a notare alcuni cambiamenti, ma pensavo fosse solo la crescita, come capita spesso che crescendo ci si allunghi e il corpo si “asciughi” un pochino. Giosuè iniziò dopo qualche mese a cambiare modo di vestire, iniziò ad usare abiti larghi e lunghi, quasi informi, non voleva assolutamente che nessuno gli alzasse la maglietta o che lo toccasse, neanche per scherzo. Io iniziai ad insospettirmi, non era da lui un comportamento simile, lui ci aveva sempre resi partecipi della sua vita, ma non volevo nemmeno intromettermi perché ormai non era più un bambino, e anche io ero passato per la difficile fase dell’adolescenza, quindi capivo che forse aveva solo bisogno dei suoi spazi. 

Una sera d’inverno mi accorsi che sotto il suo letto si trovava una scatola di cui io non ne sapevo il contenuto, cosa abbastanza strana visto che lui mi raccontava tutto. Aspettai Giosuè per chiedergli cosa stesse facendo, lui non mi diede spiegazioni, ma si alterò parecchio senza motivo. A quel punto non volli fare più domande e me ne andai a letto. La mattina successiva diedi un’occhiata, ma già da fuori sentii un odore strano, forte e nauseabondo; mio fratello entrò in camera urlandomi dietro, come se stessi facendo qualcosa di sbagliato nei suoi confronti. Quel giorno non mi rivolse più la parola, nonostante io cercassi di avere una conversazione, o per lo meno di scusarmi. 

Le settimane passavano e lui diventava sempre più strano e magro; la scatola dopo quella famosa sera sparì e io non mi feci più nessuna domanda. 

Una mattina di marzo, verso metà settimana i miei genitori vennero chiamati dalla scuola con urgenza: mio fratello era svenuto in classe prima di un’interrogazione. Arrivati in ospedale i medici diedero l’orribile notizia: mio fratello era malato, malato di anoressia e bulimia. Iniziai ad informarmi circa questa malattia, pensavo fosse qualcosa che poteva colpire soprattutto le ragazze, messe di fronte a stereotipi di attrici, modelle e influencer con fisici statuari. Non pensavo che un ragazzo potesse avere un’insicurezza simile, io ero totalmente diverso, i miei amici erano diversi. Forse era proprio questa diversità che metteva a disagio mio fratello: anche lui voleva essere come me, per lui la mia sicurezza, la mia autostima, il fatto di avere successo con le ragazze dipendevano solo da una questione fisica. 

Scoprii che attraverso i social aveva incontrato alcune persone che dicevano di aiutarlo a raggiungere il suo ideale di prestanza fisica; in realtà lo stavano lentamente conducendo a una fine inesorabile. In effetti ci eravamo accorti che ultimamente mangiava sempre meno: a volte da una porzione di pasta scartava il condimento, o di fronte ad un piatto di riso, mangiava il minimo indispensabile e alle nostre domande, rispondeva di aver già mangiato un boccone con gli amici. Aveva aumentato l’esercizio fisico: dopo pranzo correva in giardino, sia con il bello, che con il cattivo tempo, oppure lo trovavo in camera a fare addominali. Era sempre più irritabile e sfuggente, qualsiasi cosa io o i miei genitori dicessimo era sbagliata, e lui se ne andava sbattendo la porta. 

Quando Giosuè è stato ricoverato pesava poco più di 35 kg, che per 1,70 metri sono davvero pochi. Io e miei genitori gli vedemmo dopo tanto tempo il torace nudo, perché ultimamente a casa si chiudeva sempre a chiave in bagno. Il cambiamento era impressionante: attraverso la pelle pallida si intravedeva ogni singola costola, ogni singolo osso. Giosuè è rimasto a lungo ricoverato, noi andavamo a trovarlo ogni giorno, i medici si sono fatti in quattro per riuscire a farci entrare nel suo mondo e capire tutte le sue insicurezze. Pian piano lo hanno aiutato a recuperare un rapporto equilibrato con il cibo, e dopo tre mesi Giosuè è tornato a casa. Non era però lo stesso Giosuè di un tempo: gli antidepressivi che prendeva lo avevano reso apatico, gli occhi erano spenti e non aveva voglia di far nulla. La scuola per lui non era più importante, neppure il calcio, non chiedeva mai degli amici: passava le sue ore a letto o sul divano, a guardare serie tv o ascoltare musica. 

Quell’estate siamo riusciti a fare l’ultima vacanza insieme. Era luglio, purtroppo Giosuè aveva perso per forza di cose l’anno a scuola, ma non sembrava importargli nulla. Speravo che stare in montagna, rivedere la nostra compagnia di amici delle vacanze, andare a pescare con papà, potesse risollevargli il morale, ma mi sbagliavo: mio fratello sembrava sempre distante anni luce da noi, come se la sua mente fosse già altrove. Neppure il nostro caro fiume stavolta poteva curare queste ferite della sua anima… 

Passò un altro anno, tra alti e bassi. A febbraio scoppiò una pandemia mondiale, e tutto il mondo si fermò, perfino noi ragazzi non potevamo più andare a scuola. Mio fratello fu ricoverato di nuovo: chiudendosi a casa, aveva ricominciato a rifiutare il cibo. Questa volta sembrava proprio che non volesse più vivere, che avesse già deciso quale doveva essere la conclusione. Nessuna cura, nessun supporto psicologico riuscirono a farlo uscire dal suo abisso. Mio fratello ha scelto di non voler più combattere, ha deciso che per noi lui rappresentava solo un peso ed una vergogna. 

Quando abbiamo portato via le sue cose dalla stanza d’ospedale, dietro ad una cornice con una nostra foto spensierata in riva al fiume Scheggia, ho trovato queste poche righe: “Scusate per i momenti bui che vi ho fatto passare. So che nessun aiuto sarebbe servito a farmi uscire da questo baratro senza fine. Lasciate che sia il fiume a cullarmi e curare le mie ferite. Vi amerò per sempre, vostro Giosuè”. 

Ecco perché oggi sono qui, con questa foto in mano, con questa manciata di cenere in un barattolo: “Caro fiume, ti affido mio fratello, un ragazzo d’oro, un ragazzo che avrebbe meritato molto di più, un ragazzo che non è stato compreso fino in fondo. Un ragazzo che ha combattuto fino alla fine, ma non ce l’ha fatta. Lo affido a te, che porti i nostri ricordi più spensierati e sereni: racconta la sua storia ad ogni filo d’erba che si bagna su di te, ad ogni ciottolo che levighi, ad ogni legno che trasporti. Possano tutti conoscere la storia di Giosuè e farne tesoro”.