Noemi Donà

Lungo il fiume


Da ciò che ricordo io e Kaito siamo sempre stati legati.

Da bambino non è mai stato come gli altri; lui si fermava, guardava e ammirava tutto come tipicamente avrebbe fatto un marmocchio, ma rispetto alle altre persone la sua curiosità diventava più adulta di giorno in giorno, non si limitava più a porsi una domanda, agiva di conseguenza a ciò che sviluppava nel suo cervello, come se qualcuno gli stesse sussurrando all'orecchio quale fosse la cosa giusta da fare.

Rammento la sua giovinezza come una storiella all’acqua di rose, lo vedevo crescere e inciampare al mio fianco, diventare paffuto in età infantile, osservarlo mentre le sue ossa si allungavano stagione dopo stagione.

I suoi genitori lo avevano portato per la prima volta lungo le mie sponde quando lui era ancora infagottato, tra le braccia di suo padre con la tipica chioma di impettinabili capelli neri già in testa. Ricordo come la sua pelle si abbronzava in estate, il modo in cui sua madre insisteva per spalmarlo di crema solare, come quella stessa pelle in inverno si seccasse, come erano ruvide le sue mani quando mi sfiorava. Ricordo con quanta avidità sfogliava i libri, prima i racconti per bambini con i disegni colorati e poi testi con immagini sempre meno frequenti man mano che gli anni avanzavano. Rimembro quanto spesso cantasse quando eravamo in compagnia, tendeva a farlo perché, a detta sua, c’era magia in me e quindi quando eravamo insieme si sentiva libero di farlo senza pensiero di sentirsi inadeguato.

Era solito venire a trovarmi sempre negli stessi orari: lo conoscevo da quando era in fasce, sapevo quanto i suoi programmi fossero puntigliosi e minuziosamente dettagliati, pieni in ogni secondo della giornata. Mi riservava intere ore, mi raccontava cosa faceva, cosa scopriva di nuovo e cosa imparava a scuola, studiava con me e io ricambiavo concedendogli il migliore accompagnamento nel mio repertorio, facendo attenzione a come le mie acque urtavano le rocce su cui passavano.

Kaito era intelligente, da bambino mi spiegava già che cosa fossero le stelle e io mi chiedevo come facesse ad avere tutte queste informazioni alla sua età. Mi domandavo se erano i suoi genitori a dargliele o se era lui che se ne interessava e le cercava. Sapeva leggere la musica a otto anni e sapeva come suonare quel minuscolo violino che gli era stato regalato, mi disse, dal nonno. Disegnava, e santi gli Dei com'era bravo. Quando avevo occasione di sbirciare il suo taccuinetto vedevo rappresentati piccoli scorci del mio percorso: il solito posticino dove veniva a trovarmi, quello vicino casa sua dove c’era un bellissimo salice piangente; oppure la zona da cui poteva passare a salutarmi quando era a scuola; la piccola piazzetta del mercato da cui la vista era perfetta sul tratto dove maggiormente mi allargavo. Ero io, sempre io in ogni rappresentazione.

Quando imparò a usare le tempere come si deve, pensai che in giro era impossibile che ci fosse qualcuno bravo come lui. Faceva tutto in maniera spontanea e naturale, e per un semplice fiume come me, che di concetti umani ne capiva ben poco, l’arte diventava facile da comprendere, meccanismo naturale e consequenziale all’esistere, creare per rappresentare ciò che osservi. Desideravo poter dipingere anche io, a volte. Imitare la cura inimitabile che Kaito metteva in ogni pennellata, il modo in cui riempiva ogni spazio per far sì che non rimanesse nemmeno uno scorcio bianco in vista.

Non aveva amici, ma più cresceva e più diventava bello. Sentivo le giovani sussurrare di lui, ormai adolescente aggraziato e longilineo, dire cose sul suo aspetto e sulla sua intelligenza, mormorare quanto fosse un buon partito, quanto successo avrebbe guadagnato in futuro piuttosto di quanto fossero belli i suoi occhi azzurri in pieno contrasto con i capelli neri. Erano giorni in cui le mie acque si gonfiavano per la rabbia, costringevano il mercato cittadino a rimanere chiuso. Diventavo torbido e sporco, nessuno aveva il coraggio di toccarmi in quei momenti, ma se lo avessero fatto mi avrebbero trovato gelido. La gelosia di un fiume, ghiacciata perché rimane dentro, diventa rancore, risentimento e mortificazione, si accumula tra le rocce su cui le mie acque scivolano.

Ma le giovani parlavano e Kaito non sembrava interessato, lui cercava intelligenza e loro sapevano concedere solo frivolezza. Questo mi rallegrava, il mercato cittadino era salvo e così la scuola del ragazzo che tanto amavo. Veniva da me, lo sapevo, perché ero il solo che sapesse concedergli tutta la tranquillità che gli serviva, gli piacevo.

Ma poi le cose iniziarono a cambiare. Da un giorno all'altro Kaito sparì. Smise di venire a trovarmi per un po’ e io, bloccato nel mio letto, non potevo andare a cercarlo. Un giorno tornò nel solito posto ma questa volta non era solo. Con lui c'era una ragazza, erano mano nella mano, lei con un libro sottobraccio e lui con l'album da disegno tra le dita. Scivolarono insieme lungo la pendenza delle mie sponde, sedettero l'uno accanto all'altra sull'erba fresca che mi cresceva accanto. Lei leggeva e ogni tanto lo coinvolgeva, richiamando la sua attenzione e facendogli leggere alcune righe. Lui nel frattempo la disegnava, vedevo perfettamente i segni delle labbra a matita, gli occhi grandi e il nasino piccolo. Era bravissimo, come al solito, ma adesso le mie acque si agitavano di invidia e ira, tentavo di non guardare ma non potevo. Per quanto piccoli fossero i gesti che li univano, si capiva tutto, era impossibile non vedere quanti sentimenti provassero l'uno per l'altra.

Passarono altri giorni, Kaito tornò da solo. Si distese quanto più possibile vicino a me, con la testa a penzoloni su un sasso sporgente. “Sai, credo di essermi innamorato sul serio questa volta. Che ne pensi, lei ti piace?” Riuscii a bagnarlo sfruttando l'attrito con una pietruzza sul fondale, lui si ritrasse dispiaciuto, si alzò e con sguardo amareggiato si allontanò.

Lo vidi tornare a casa, forse piangeva o forse si sentiva in colpa, forse era solo molto arrabbiato. Non venne da me per settimane intere, lo vedevo ogni tanto passeggiare a mano della ragazza che tanto gli faceva battere il cuore, parlavano fitto fitto e lui non voleva saperne di volgere il suo sguardo verso di me.

Ero affranto, mortificato; mi sentivo in colpa per aver ferito colui che amavo, ma non riuscivo a non provare gelosia. Fu un periodo in cui le piene esasperarono i cittadini, fecero piangere i commercianti che non potevano più vendere, tenevano soggiogate le persone in casa.

E poi un giorno Kaito tornò. Le settimane erano diventate stagioni intere, in nessuna ero stato capace di contenere la mia frustrazione.

“Devi smetterla!” Urlò da lontano. Un urto, uno schizzo, sciabordii che urlavano "No! Mai!" E lui capì, come mi aveva sempre capito. Scese la sponda, adesso era vicino, lo osservai impotente mentre uno dei suoi piedi scivolava nelle mie acque gelide, e poi lo seguì una gamba e il busto e alla fine era completamente immerso, per la prima volta. Sentivo il suo calore venire intaccato dalla freddezza della mia rabbia, ma vedevo anche il suo sorriso e i suoi occhi azzurri, completamente sott'acqua.

Mi dispiace Kaito, mi dispiace, urlavo. Ma lui stava in silenzio e mi abbracciava, e io sentivo il suo corpo raffreddarsi a poco a poco. Mi agitai, tentai il possibile per farlo rinsavire e per convincerlo ad uscire, ma nulla. Non stava respirando, iniziai lentamente a capire la sua volontà. Stupido, stupido Kaito. Sapevo che non avrebbe cambiato idea per nulla al mondo, voleva sacrificarsi per evitare che la mia gelosia mettesse in pericolo tutto il villaggio, e così sarebbe stato. Lo sentii sussurrare qualcosa, “ti amo” prima che decidessi di compiere il mio ultimo gesto di pietà: sollevai un’onda, il corpo già provato del mio amato scivolò contro una roccia, volevo che la sua sofferenza finisse in fretta. Sentii il suo cranio spaccarsi sul masso, vidi il sangue tingerlo.

“Visto, Kaito? Sono riuscito a dipingere anche io”.