Anna Chiereghin

Oltre lo specchio


Sara è un nome di origine ebraica e significa principessa, anche se di principesco Sara non aveva quasi nulla. La giornata era cominciata male: la caldaia si era rotta mentre si trovava sotto la doccia, si era dovuta finire di lavare al gelo. Si era un po’ arrabbiata con la madre proprio per quel freddo che aveva dovuto subire, ma i loro litigi non duravano più di dieci minuti: si volevano molto bene, nonostante la testardaggine che una aveva ereditato dall’altra. Arrivata a scuola sul solito mezzo pubblico, un po’ sporco e fatiscente, si era trovata con i suoi amici, con cui andava piuttosto d’accordo e tra cui era popolare. Da poco entrata nell’adolescenza, nonostante i ricci rossi un po’ ribelli, la si poteva considerare piuttosto normale: una media buona ma non buonissima, amicizie solide, ma non troppo profonde, classici litigi con i genitori e l’inclinazione ad esagerare con alcol e sigarette. Dopo la ricreazione si diresse in bagno con Giulia e Anna per fumare una Heets. Aspettò che fumassero prima loro due per poi godersi la sua sigaretta senza combustione in solitudine; aveva questo strano vizio di fissarsi allo specchio dell’ultimo bagno mentre inspirava a pieni polmoni quel veleno. Non che fosse egocentrica, né narcisista, forse attraverso quell’immagine cercava di scoprire ciò che doveva esserci realmente, nell’iperuranio, dietro alla banale ragazza che vi si rifletteva.

A Salimeh era sempre piaciuto il suo nome. È di origine islamica e significa calma. Un po’ ironico pensando al suo carattere: proprio per quello le piaceva. Come quando sul fondo della tazza di caffè rimane lo zucchero e gustandosi la bevanda amara all’ultimo sorso si sente il contrasto dolce che risveglia i sensi. Il suo nome era il caffè e la sua indole lo zucchero. Anche il suo aspetto era una contraddizione: i capelli e le sopracciglia di colore nero, gli occhi ambrati e la carnagione caramello, abbinamento strano pensando alla carnagione quasi nera dei suoi genitori. Salimeh aveva da poco compiuto i quindici anni: età in cui ci si affaccia per le prime volte ai problemi del mondo e in cui si ha ancora la speranza di poterli risolvere. Si acconciò il burka nero pece allo specchio, mentre la sua identità svaniva, obbligata a coprirsi e a nascondersi, piuttosto che a sottolineare la propria femminilità con i tanti hijab colorati che non poteva più portare. Salì sul pulmino che la portava a scuola nascondendosi sotto ai sedili assieme alle altre ragazze, come d’abitudine da qualche tempo ormai, così da non essere viste dai passanti. In caso di qualche strana perquisizione era stata creata una porticina di emergenza, nascosta sotto gli ultimi sedili, che per fortuna non era ancora stata usata. Salimeh piangeva in silenzio tutte le mattine nel tragitto, pensando che forse proprio quel giorno sarebbe potuto essere il suo ultimo. La scuola era in realtà un ex ospedale abbandonato in cui clandestinamente le ragazze potevano studiare. Dopo le prime due ore chiedeva sempre di andare in bagno: le piaceva togliersi il velo davanti alla faccia e guardarsi allo specchio per ricordarsi di avere ancora un’identità, un corpo e di conseguenza anche un’anima e un pensiero, che in quel momento valeva meno di zero, ma forse un giorno sarebbe valso qualcosa, così sperava da innocente quindicenne.

L’ultimo bagno era il preferito di Sara, lo specchio le ricordava i suoi genitori, ce n’era uno uguale in cucina, davanti cui, quando aveva ancora i denti da latte, si specchiava assieme al padre con facce buffe. Davanti al suo riflesso in bagno ci vedeva i loro volti, come se nulla fosse mai cambiato. La madre pensava che Sara fosse felice e piena di amici fantastici, dato che usciva sempre, anche Sara lo credeva, ma quando si guardava in quello specchio un po’ sporco le certezze svanivano: gli amici diventavano conoscenti, la sua personalità frizzante una maschera e i suoi genitori figure evanescenti. Lo specchio aveva un aspetto strano quel giorno, che fosse più sporco del solito? Essendo quel bagno fuori uso - lo sciacquone non funzionava ormai da mesi - era stato riservato ai fumatori e il personale scolastico non ci metteva nemmeno più piede, dunque le incrostazioni si erano fatte sempre più grandi e dure da togliere. Eppure a Sara sembrò come se un grande alone nero stesse improvvisamente sovrastando la sua folta chioma rossa. Si avvicinò per vedere meglio, mentre scacciava via il fumo con la mano che non impugnava l’Iqos. Al posto dei suoi occhi verdi ne vide due ambrati, accoglienti e tristi allo stesso tempo, circondati da un volto di carnagione mulatta, invece del suo pallore, incorniciato in un velo nero. 

Salimeh strabuzzò gli occhi, pensava di avere le allucinazioni dal trauma della guerra, in quel momento diventare pazza non sarebbe stato così male: non avrebbe provato tutto quel dolore se non si fosse resa conto di ciò che stava accadendo. La vedeva chiaramente: una ragazza come lei, sebbene dall’aspetto e dallo sguardo completamente diversi: vedeva dagli occhi, oltre che dalla folta chioma che poteva esibire tranquillamente, che lei era libera, forse non in tutto e per tutto (ma chi lo è?) però il suo sguardo esprimeva sicurezza, speranza nel futuro, anche se coperto da un velo di tristezza. Salimeh era ormai diventata brava a capire le persone dagli occhi, spesso unica cosa visibile nelle donne.

Sara era intimorita, ma l’indole curiosa, tipica di chi ha la libertà a portata di mano, la spinse a bagnarsi il dito con un po’ di saliva per lasciare una traccia sopra allo specchio. “Hi” vi scrisse: l’inglese era una lingua internazionale e dubitava che quella ragazza potesse conoscere l’italiano. Eppure non ebbe risposta. Si bagnò un altro dito e scrisse “Sara” e sotto “name”, non si potevano scrivere frasi di senso compiuto in uno specchio così piccolo. Dopo alcuni minuti vide apparire Salimeh, un nome un po’ strano agli occhi di una ragazza occidentale, che in qualche modo le ricordava lo zucchero filato. «Sara, tutto bene?» La voce di Anna risuonò nel bagno. «Sì sì, tutto bene, tornate in classe, fra poco vi raggiungo». 

Era l’unica volta che Salimeh poteva comunicare con qualcuno che non fosse in guerra, non che fosse completamente isolata, il mondo occidentale sapeva cosa stava succedendo nel suo Paese, anche se non con i dettagli che lei poteva conoscere. Quella non era l’occasione per comunicare una realtà non conosciuta, ma per essere un’adolescente normale, senza essere costretta ad osservare ogni giorno volti tristi e impauriti e a non poter aprire bocca per timore di dire qualcosa di sbagliato. Nonostante questa volontà, le venne spontaneo inumidirsi nuovamente il dito e scrivere “war” sullo specchio e subito dopo “Iran”.

Erano mesi ormai che si sentivano notizie atroci sulla guerra in Iran e Sara, nonostante ne fosse a conoscenza, non se ne curava, come la maggior parte delle persone d’altronde, pensando che le guerre ci sono sempre state e sempre ci saranno, pensando a tali avvenimenti come banali fatti di cronaca o studi storici. Non immaginava ci fossero persone vere dietro tutte quelle atrocità, ovvio che dovevano esserci persone che soffrivano, ma d’altronde finché non lo si vive sulla propria pelle o negli occhi dell’altro non si pensa accada veramente: sono come storie esotiche che riecheggiano in lontananza, fin quando non ne vedi gli effetti sul volto provato di una persona come te. Sara da quel giorno non pensò più alla guerra come la raccontano in televisione, ma come gli occhi di Salimeh le avevano mostrato e con questo segreto pesante nel cuore sarebbe cresciuta e maturata, forse sarebbe stata più triste di prima in qualche momento, ma avrebbe trovato davvero sé stessa. 

Salimeh si rimise il burka e uscì dal bagno, la libertà esisteva davvero, era tangibile, e forse sarebbe arrivata anche in Iran prima o poi.