Beatrice Romagna

Dalla parte di chi una vista non ce l'ha


Finalmente il treno si arrestò, le porte si spalancarono ed i miei piedi, prima uno e poi l’altro, approdarono, salvi, a terra. La stazione era proprio come la ricordavo, tutto era rimasto immutato. Lì il tempo pareva essersi fermato. Ero perfettamente conscio, tuttavia, della natura illusoria di tali pensieri. Il passato irrompeva puntualmente nella mia mente per far memoriale di quella porzione di vita che in un certo qual modo avevo perduto. Ricordi aggressivi ed indelebili pian piano tornavano a galla con tutta la loro prepotenza ed ostinazione. Era impossibile dimenticare, nulla sarebbe più stato come prima. Il caldo afoso di quel luglio del 1945 era particolarmente soffocante e l’aria salmastra, un misto di umidità ed afa, mi entrava nelle narici stordendomi un poco. Prelevai dal pacchetto quell'ultima sigaretta, un po’ accartocciata, che mi era rimasta, la accesi e la posai delicatamente tra le labbra. Aspirai lentamente, godendomi la libertà per la prima volta dopo troppo tempo, confuso e felice. Tutto attorno a me sembrava gioire per il mio arrivo, la luce del sole brillava qua e là ed il suo riflesso splendeva sulla superficie limpida del canale. Spirai una piccola nuvoletta di fumo che ridisegnò con maestria, oltre che i contorni degli antichi edifici veneziani, anche i confini dei miei ricordi. Maledetto quel 15 settembre del 1943! Al diavolo quel dannato giornale che mi capitò di leggere. Se non l’avessi sfogliato, probabilmente non avrei una storia da raccontare e mi sarei risparmiato un mucchio di dolori e fatiche. Citava in grassetto ed in carattere maiuscolo:“Tutti gli ufficiali italiani della classe 1898 e successive hanno l’obbligo di presentarsi immediatamente col bagaglio personale agli alberghi Terminus o Germania. Il termine della presentazione scade alle ore 20 di oggi 15 settembre. Sono esclusi dall’osservanza di tale ordine gli ufficiali che già prestano servizio presso le forze armate tedesche. I trasgressori agli ordini suddetti saranno deferiti al Tribunale militare tedesco”. Non ebbi dubbi e mi recai in fretta nel luogo che mi era stato ordinato, convinto d’esser stato convocato per una buona causa e completamente ignaro di ciò che da lì a poche ore mi sarebbe accaduto. 

Immerso com’ero in quelle terribili memorie, quasi non m’accorsi del ponte delle Guglie e rischiai d’inciampare. Sentivo una punta di disagio nel percorrere la Strada Nuova, nell’incontrare volti conosciuti, e non, che mi guardavano ora con stupore ora con compassione. Taluno mi salutava, qualche altro mi sorrideva, ma c'era anche chi filava diritto per la sua strada. Ero distrutto emotivamente, devastato dal viaggio, logorato da tutta l’angoscia provata e profondamente segnato dal distacco forzato con la mia terra e la mia famiglia. Ricordo che, sempre quella sera, fui condotto in stazione insieme ad altri soldati e che la mattina dopo, chiusi in carri bestiame, fummo avviati in Germania. Attraversammo svariate località, ci vennero distribuiti alcuni viveri e, ricordo ancora, v’era una giovane donna, forse partigiana, tutta indaffarata a far smontare dal treno i ragazzi in abiti civili, accompagnandoli a due a due, sottobraccio, fuori dalla ferrovia. Siccome portavo la divisa, rifiutai la proposta che mi fu rivolta e continuai il viaggio nei carri bestiame. Durante il tragitto ci venne distribuito del pane nero e un fondo di gavetta di minestra di crauti, poi il treno ripartì. Ancora lo sento sbuffare, avverto tuttora lo sferragliare violento del vagone sui binari nel suo avanzare inesorabile. Non aveva pietà per nessuno, procedeva spedito verso la sua meta, non si interessava di coloro che erano lì per malinteso. Avanzava. Il 18 settembre giungemmo ad Hammerstein, in Pomerania, pressappoco vicino a Danzica. Lì era situato il Konzentrationslager Stalag II B, dove fummo sequestrati. Mi pare ancora di vedere quell'immensa distesa di baracche in legno, perfettamente uguali in tutta la loro bruttezza, circondate da un recinto di reticolato. All’interno di queste ingombravano la stanza letti a castello, se così si possono definire, a due o tre piani, con o senza pagliericci, impregnati nella maggior parte dei casi di pidocchi e cimici. Non eravamo esenti dallo stillicidio, nemmeno la pioggia ci risparmiava i patimenti. Le temperature si inasprivano sempre più e con loro la nostra salute andava via via a farsi benedire. Sebbene le stufe non mancassero, perché effettivamente qualcuna c’era, il riscaldamento risultava assente. Difatti il carburante impiegato era razionato cosicché non si permetteva una reale situazione di benessere. Venivamo svegliati bruscamente verso le sei del mattino, ingollavamo rapidamente le misere razioni forniteci dalla Croce Rossa, solitamente una zuppa di patate, pane e acqua calda per il caffè. Alla mezza sciacquavamo i cucchiai e le ciotole smaltate per poi spazzare la casa. Mi pare ancora di vedere quelle tre ampie bacinelle, riempite di acqua gelata, adibite alla rasatura. 

Mi sorpresi a battere i denti e ad avere la pelle d'oca. Ancora sentivo il gelo entrarmi nelle ossa, lo scricchiolio della mandibola nell’assecondare i movimenti della mia mano intenta a far scorrere la lama sul viso. Ma quel freddo adesso era sparito ed aveva lasciato posto ad un sole splendente, vivo e più giallo che mai. Il ghiaccio che portavo dentro di me, pian piano veniva sciolto dalla calura estiva. Rivolsi lo sguardo alla mia destra ed ammirai, dopo moltissimo tempo, il campo della Maddalena in tutta la sua giocosità. I bambini salterellavano da ogni dove, forse per il campanon forse per piera alta, chi lo sa. Mi persi nuovamente ad inseguire i miei folli ricordi da prigioniero di guerra. Alle sette del mattino venivamo trasferiti in un campo di patate su carri trainati da cavalli e guidati da contadini tedeschi, freddamenti ostili, pronti a sparare al Kriegsgefangener. Alle undici e mezza si pranzava con il medesimo pasto della mattina e poi si tornava a lavorare fino a cena, dove ci aspettavano gli avanzi del giorno. Ciò che più mi doleva, al di là della fame, della miseria, del lerciume e della fatica, era il non sapere come stava mia moglie Augusta che da me attendeva un bambino. Avevamo avuto in questi anni un rigido scambio epistolare, severamente controllato dai tedeschi. Mi aveva comunicato la nascita di nostra figlia Maria e mi aveva scaldato il cuore tante di quelle volte descrivendomi quei suoi occhioni celesti che parevano ridere al suo papà. Mi immaginavo quel fagottino, sì piccolo e delicato in braccio ad Augusta sorridente. Quanto avrei voluto esser là con loro… Dio solo può sentire lo strazio scaturito dal distacco con le persone che più amo al mondo. 

Senza nemmeno accorgermene, ero arrivato a San Felice. La chiesa, alla mia sinistra, risvegliò in me quell’antico sentimento religioso che per troppo tempo, tra fughe e prigionie, era stato trascurato. Ricordai quelle splendide domeniche, quando, al termine della messa, ci ritrovavamo, amici e famiglia, a pranzare assieme a casa di qualcheduno. Mentre camminavo, quasi mi commossi nel constatare che il terreno su cui spendevo i miei passi era la mia città, erano le mie pietre d’Istria. Avevo le gambe disintegrate, il fisico mi gridava a gran voce di fermarmi ma la mia voglia di arrivare a casa vinceva la fiacchezza del corpo. Da quando il 9 marzo 1945 il campo di prigionia era stato liberato dall’Armata Rossa, ero finito in un campo tedesco presieduto dagli americani. Da lì era cominciato il lungo procedimento per il rimpatrio che mi aveva costretto a viaggiare ora a piedi ora in treno, attraversando sia la Germania sia la Cechia. Mi ripresi, mi guardai intorno e riconobbi subito il massiccio portone di casa mia. Mi dolevano i piedi, il mio respiro era affannoso, desideravo che quella porta si aprisse all’istante. Suonai e dopo qualche secondo, quella si schiuse. Dinanzi a me apparvero loro, quegli occhi. Ed era proprio vero, cara la mia Augusta, ch’essi sorridevano.