Mario Damiani

I prati della Luna


Io e Giulia ci siamo conosciuti all’inizio del terzo anno di liceo. Il primo giorno di scuola, al momento di entrare in classe, tutti si sono messi a correre disordinatamente, come al solito, per prendersi il banco migliore. Noi due siamo rimasti sulla soglia dell’aula, in attesa che il trambusto si placasse. Poi ci siamo guardati con un mezzo sorriso e ci siamo diretti verso il banco che era rimasto libero, in prima fila. 

Non avevo mai avuto come compagna di banco una ragazza e, quando ci siamo seduti uno vicino all’altra, ho sentito un po’ di batticuore, ma non credo che lei se ne sia accorta. Mi ha guardato con i suoi occhi azzurri seri e gentili, sotto una frangetta di capelli castani:

«Ciao, io sono Giulia. Come ti chiami?»

«Lorenzo, ciao» ho risposto, cercando di rimanere impassibile.

Era arrivata da poche settimane a Costa Mezzana, il paese più grande della nostra valle, con i suoi genitori. Sua mamma aveva vinto il concorso per il posto di Segretario comunale e suo padre l’aveva seguita quassù per fare il medico condotto. 

Io abitavo poco più in alto, nella fattoria costruita dai miei nonni e ingrandita un po’ alla volta dai miei genitori. Al mattino il sole sorgeva alle nostre spalle, dietro la cresta della montagna, e illuminava prima le sommità rocciose dei monti dall’altra parte della valle e poi, via via, i boschi di abeti e larici e i prati, fino alle case del paese raccolte intorno alla chiesa, nel fondovalle. 

Ma la cosa più bella, per me, era salire con il nonno attraverso il bosco fino ai prati della Luna, il pianoro dove, durante la primavera e l’estate, lui e mio padre portavano a pascolare le mucche e preparavano il fieno per l’inverno. Era come una terrazza affacciata sulla valle: da lassù i contorni delle case sfumavano e le montagne balzavano in primo piano.

Poi, i prati della Luna sono diventati la meta preferita delle mie passeggiate con Giulia. Spesso ci trovavamo per studiare insieme, qualche volta a casa sua, qualche altra su alla malga. In primavera, quando le giornate iniziavano ad allungarsi, riuscivamo a finire i compiti in tempo per salire al pianoro, e rimanevamo lì distesi sull’erba a parlare, a guardare le corse delle nuvole o a seguire con lo sguardo l’aliante che planava silenzioso attraverso la valle.

E così, un pomeriggio – ormai eravamo alla fine del quarto anno di liceo – invece di guardare le nuvole ci siamo guardati con un mezzo sorriso, un sorriso d’intesa, un po’ come quella volta sulla soglia dell’aula, e ci siamo baciati. 

Costa Mezzana, intanto, stava crescendo, e la montagna alle spalle della malga era diventata il paradiso dei temerari che si lanciavano con il parapendio, tanto che anche Giulia ed io abbiamo deciso di provarci. La prima estate abbiamo fatto soltanto voli in tandem con l’istruttore, ma l’estate seguente, con la carica di fiducia che ci dava l’aver superato alla grande l’esame di maturità, abbiamo iniziato a volare da soli. La rincorsa, il paracadute che ci solleva verso l’alto, poi la prima cosa che vediamo sotto di noi sono i prati della Luna, con le macchie bianche e nere delle nostre mucche e quelle gialle dei covoni di fieno, disposti in file ordinate. E più in là lo spettacolo della valle, vista da prospettive diverse e sorprendenti.

Un sabato, sul finire dell’estate, mi sono alzato presto: la giornata era luminosa e fresca, sembrava fatta apposta per concedersi un bel tuffo con il parapendio. Giulia quella mattina era occupata a fare la baby sitter, per mettersi in tasca qualche soldo in attesa di iniziare l’università. 

Mi sono vestito e mi sono caricato in spalla lo zaino con l’attrezzatura. Ho percorso il sentiero che dalla malga porta ai prati della Luna, e da lì sono salito all’area di decollo. Ho disteso sull’erba il mio paracadute giallo e verde, ho sistemato con gesti ormai automatici le imbragature e mi sono avvicinato al pendio affacciato sulla valle. Un’occhiata alla manica a vento, una breve corsa verso il vuoto e un tuffo al cuore, come ogni volta. Il tempo di contare fino a due, e la grande ala si gonfia e mi strattona verso l’alto.

Manovro un po’ per orientare il volo, in modo da dirigermi verso le montagne che coronano la valle a sud, e finalmente mi godo lo spettacolo del fiume che luccica nel fondovalle, dei boschi e delle rocce rosa che si stagliano sullo sfondo azzurro, senza nuvole. Più in alto di me vedo volteggiare una coppia di falchi. Con le ali spalancate e immobili, descrivono ampi cerchi esplorando la loro riserva di caccia.

Ho seguito con lo sguardo i falchi un po’ troppo a lungo, e mi accorgo di essere molto vicino al fianco della montagna. Decido di salire per trovare spazio per la virata, ma una raffica improvvisa porta il paracadute a toccare la roccia. Mi accorgo subito che la mia ala gialla e verde ha perso portanza e cerco di manovrare per scendere verso una radura che intravvedo sotto di me, in mezzo al bosco. 

Ma il danno è troppo grave, la mia velocità di discesa aumenta rapidamente. Stranamente non ho paura, sono totalmente concentrato sulla posizione da assumere per minimizzare l’impatto. Poi chiudo gli occhi e sento la mia mente che recita una delle preghiere che mi hanno insegnato da piccolo, la più breve di tutte.

Ma non succede nulla. Nessuno schianto. Con gli occhi ancora chiusi, mi sembra di galleggiare. Li apro e vedo, sotto di me, le cime degli abeti e dei larici. Mi guardo intorno: tutto è al suo posto, il fiume, il sole, la valle. Istintivamente, cerco di afferrare le manovre del paracadute, ma non ci riesco. Poi lo vedo, là in basso, una piccola macchia gialla e verde appoggiata sugli alberi.

Eppure sto volando. Sento perfettamente la consistenza dell’aria contro il viso, sotto il mio corpo e sotto le mie braccia. Basta una lieve inclinazione del corpo, e riesco a virare facilmente. Mi viene da ridere, una risata d’incredulità che però si trasforma in uno strano sibilo. 

Guardo a destra e a sinistra, verso le mie braccia distese, ma non le vedo. Anzi, vedo due ali. Due grandi ali, come quelle dei rapaci. Forse è successo come in qualche film, i falchi che avevo osservato prima sono arrivati in mio soccorso e sto volando sul dorso di uno di loro. Poi sorvolo un prato, e l’ombra che vedo sotto di me mi lascia senza fiato: è l’ombra di un unico uccello, che vola ad ali spiegate. Non c’è traccia di nient’altro.

Due alpinisti che quella mattina stavano scalando la parete nord della Cima Bianca mi hanno visto precipitare e hanno dato l’allarme. Il paracadute l’hanno trovato subito, con un drone. Dopo una settimana di tentativi infruttuosi, le Guide alpine e la Forestale si sono arresi e hanno sospeso le ricerche del mio corpo.

Il parroco ha insistito per celebrare comunque una messa nella chiesa del paese, per ricordare la mia breve vita felice e pregare per la mia anima. Alla fine della messa, mio papà e mia mamma hanno pianto abbracciando gli amici e i parenti. 

Giulia no: secondo lei non ero morto, lo sentiva. E un paio di volte, sul sagrato, ha alzato lo sguardo verso il cielo e mi ha visto, un piccolo falco che volteggiava in ampi cerchi sopra di loro. E mi è sembrato che sorridesse come quando, a volte, ci capitava di discutere animatamente e lei, di colpo, lasciava perdere e mi rivolgeva un sorriso pieno di comprensione, che faceva svanire tutta la mia tensione.

Allora ho deciso di farmi coraggio e di cercare un modo per ricambiare il sorriso di Giulia e farle capire che anch’io avevo capito. Così sono tornato a sorvolare i prati della Luna, scrutandoli dall’alto con i miei nuovi fantastici occhi ad alta definizione.

Finché una mattina l’ho vista che saliva, zaino in spalla, verso l’area di decollo. Ha disteso sul prato la grande ala azzurra e arancio e si è lanciata. Sono sceso lentamente verso di lei, e quando l’ho affiancata mi ha guardato dritto negli occhi, con quel suo sguardo serio e gentile. Poi abbiamo virato in perfetta sincronia e ci siamo diretti in alto, verso una nuvola bianca e rosa.