Mitia Chiarin

L’altro lato del marciapiede


«Ehi, ma tu non sei mia cliente?»

Mustafa sorride sguaiato, guardando fisso verso di me. La sua bocca si allarga in una risata e io vedo solo nero dentro quella bocca di tunisino stronzo e supponente, dai denti mezzi marci. Sento che le mani cominciano a sudare troppo. Potrei asciugarmele prendendolo a schiaffi ma la situazione non lo consente.

“Martina, pensa! Evita di fare stupidaggini”, mi dico. 

Devo calmarmi. Sono in divisa, con i colleghi della sezione Volanti; siamo impegnati in una serie di controlli di pattuglia. Ovvio che uno come Mustafa, che di notte è sempre in giro, attorno alla stazione, per vendere la sua mercanzia, lo avremmo incontrato. “Dovevo mettermi in malattia improvvisa”, penso mentre giro bellamente le spalle allo spacciatore che tiene le mani sul cofano della macchina mentre lo perquisiscono. Lui gira la testa e torna a guardarmi.

«Ehi, dico a te. Forse hai una sorella gemella?», mi dice. 

E io stavolta non posso non reagire. Perché i colleghi ora guardano verso di me che sto in disparte a fumare una sigaretta. 

«A parte il fatto che ehi, lo dici a tua sorella e non ad un ispettore di polizia, devo portarti in cella di sicurezza stanotte per farti scoprire la parola rispetto?». Scandisco le parole, andando a pochi centimetri da quella faccia da schiaffi. 

«Vedi di smetterla di provocare e vediamo se ti mandiamo a casa stasera o ti portiamo al grand’hotel di Santa Maria Maggiore». 

Mustafa si zittisce, capisce che è meglio tacere. E io domani devo cambiare venditore e fare scorta altrove. Altrimenti prima o poi quello stronzo parla o, peggio, mi ricatta. Lo fisso bene in faccia. Spero abbia capito il messaggio. 

Io non sono una tossicodipendente. 

Non sono di quelli che trovi sulla strada, che si fanno tre, quattro volte al giorno di eroina e si bucano dappertutto, anche sotto le piante dei piedi, e finiscono con il non avere più anima e decenza, portata via dall’eroina. 

Io ho una sola dipendenza. 

Si chiama Emanuele e ho bisogno di lui per sentirmi vera. Amo Emanuele, che ama me, ma ha una relazione duratura con la cocaina. Lui ne ha bisogno spesso, per tenere duro e non crollare. Vive come un funambolo che cammina sul filo di ferro ad una altezza di 50 metri. Basta che qualcosa vada storto (un rimprovero dal capufficio o una bolletta che è troppo alta e non riusciamo a pagare subito) e lui crolla e si sente un fallito. 

E allora io devo intervenire. Prendo la giacca e vado a comperarla io di notte, la cocaina, anche finito il turno. Così quando si sveglia Emanuele mi sorride, si fa, e ce la fa. E passa un’altra giornata con me e non pensa di ammazzarsi. Io per lui potrei sciogliermi ribollendo come l’eroina scaldata sul cucchiaio. Perché di Emanuele ho bisogno. Lui è la mia droga. 

Emanuele ama me, che gli porto la cocaina. Guardarlo, seduto in cucina, mentre accavalla le gambe la mattina quando facciamo colazione, mi fa stare in pace. E così per tenerlo vicino, io assecondo i suoi bisogni. 

Essere la compratrice, alla fine non mi crea più grossi problemi con il lavoro che faccio. Eticamente, capisco che la mia scelta potrebbe non essere compresa. 

Una tutrice dell’ordine che invece di acciuffare gli spacciatori, nel tempo libero diventa loro cliente. 

L’etica è un fatto personale, frutto delle scelte personali di ciascuno e della vita che ciascuno conduce. Ci sono ladri a cui affiderei il mio portafoglio perché so bene che la loro etica prevede che il furto vada a colpire non pari ma superiori, specie ricchi sfondati senza arte né parte. E ci sono tutori dell’ordine, che ho conosciuto, che avevano menti ben più criminali di tanti da loro arrestati. L’etica è quella personale regola per vivere senza fare, troppo, male agli altri. Poi, crescendo, capisci che ciascuno di noi del male agli altri lo fa, volontariamente o meno. E tra tutti i soggetti che sulla strada incrocio per fare il mio mestiere, i tossicodipendenti sono gli unici che, essenzialmente, fanno male a loro stessi. Delusi, indecisi, incapaci, soli. Nessuno ci insegna a sopravvivere bene. Non ci sono libretti di istruzioni. 

La droga diventa la loro migliore amica. Emanuele me lo ha spiegato bene: la cocaina gli permette di reggere e chi sono io per condannarlo senza appello, se anche io ho paura, spesso, di vivere. Ma sono una poliziotta, direte voi. Una poliziotta, innamorata, ribatto io. 


Emanuele l’ho conosciuto durante un pattugliamento di controllo. Stava discutendo con Mustafa che voleva fargli lo sconto in cambio di qualche ora da fargli passare con certi tipi nella chiesa dei nigeriani, il dopolavoro in abbandono. Quel giorno non sono uscita dall’auto di servizio e sono rimasta a guardare gli occhi blu di questo ragazzo impacciato, con il maglione con le maniche a coprire le mani. Spiegava la sua posizione ai colleghi in un perfetto italiano, rispondendo in modo timido e rispettoso. Una situazione inconsueta, sulla strada. «Ma che ci fa un cristallo in mezzo a questa brutta gente?», ha chiesto, onesto, un collega. Lui è rimasto zitto. Ha preso i documenti e se ne è andato a piedi, agitato. 

Quando il turno è terminato, ho preso il foglio di servizio e ho memorizzato le sue generalità. E sono passata sotto casa sua varie volte, perché quel cristallo, che si poteva rompere solo respirandogli addosso, lo volevo conoscere. Finalmente dopo una settimana ho incrociato il suo volto; usciva dal panettiere con due croissant nel sacchetto di carta marrone. Il suo pranzo. E ci siamo messi a parlare. Da quel momento, non abbiamo mai smesso di farlo. 

Nei controlli periodici a cui siamo sottoposti, come agenti di polizia, se rilevassero con un capello o l’esame del sangue, i livelli di nicotina nel mio corpo, me la passerei decisamente male. Ma quelle sono dipendenze tollerate. Ad ogni pacchetto di sigarette comperato in tabaccheria garantiamo entrate allo Stato. Il mercato della cocaina, e più in generale delle sostanze stupefacenti, invece, è gestito dalla criminalità, piccola e grande, a seconda di chi incontri sul marciapiede. E io, in quanto ispettrice di polizia, dovrei sapere benissimo da che parte del marciapiede devo stare, sempre. Dalla parte di chi insegue, arresta e porta in carcere gli spacciatori, i criminali in genere. Ma i consumatori sono altra cosa. Andrebbero presi sotto braccio, portati su un divano, con medici, psicologi, operatori a disposizione. Un tè o caffè con i biscotti. E bisognerebbe con loro parlare, discutere, confrontarsi.

Invece, per l'opinione pubblica, che in fondo siamo banalmente noi, sono la polvere da nascondere sotto il tappeto. Come i clochard che dormono in strada. Quelli che non ce la fanno e di cui ci vergogniamo.

Da quando ho incontrato Emanuele è come se la mia anima si fosse scissa, in due. E ho finito con lo stare in mezzo alla strada per dare la caccia a chi vende sostanze, servi di qualcun altro, che resta sempre nell’ombra. E poi, tolta la divisa, torno sulla strada per Emanuele, tenerlo lontano da quelli come Mustafa, che venderebbero chiunque per quattro soldi. Devo stare ben attenta a tenere il berretto calato sugli occhi e parlare il minimo possibile. Meglio se cambio acconciatura spesso e metto gli occhiali. 

Per Emanuele si fa questo e altro, come il dover passare dall’altra parte del marciapiede. La mia etica è questa: si sta vicino ai deboli, si combattono i cattivi. 

La presenza di Emanuele fa bene alla mia vita. Vederlo ridere, accarezzarlo mentre accavalla le gambe e legge il giornale in cucina mentre facciamo colazione e poi prenderlo per mano e portarlo in camera di letto. Abbracciarci, mescolarci. Assieme non esiste nullità ma moltitudine. E nel molto non c’è mai fallimento. 

«Arriviamo tardi al lavoro», prova a dire lui. 

«Ci sono un sacco di scuse che si possono accampare. Al massimo chiedo il cambio turno».