Sara Forniz

Viscere


10:44, il vaporetto era già arrivato quando notai quello che restava di un cartellone scolorito e sbrindellato: A plus A Gallery Lena Köhler, Viscere. Dal collo un brivido mi scivolò come una goccia lungo la spina dorsale, salita a bordo mi tolsi subito la sciarpa e aprii il cappotto. Guardando fuori dal finestrino pensai a come ci siamo conosciute. Marianna era una compagna di classe delle medie che un giorno aveva deciso che i miei occhiali proprio non le piacevano, così mi prese a schiaffi. Il primo colpo mi lasciò attonita, probabilmente con la stessa espressione idiota di un’orata sulla brace durante la grigliata della domenica. Lena scattò su di lei come se qualcosa di selvatico l’avesse posseduta e una volta stesa a terra le assestò un colpo sul naso: «Così impari!» aveva urlato con fierezza. In quel momento fu come se il mio io-ittico fosse inaspettatamente resuscitato grazie al gesto di quella fatina dagli occhi azzurro ghiaccio e dai lunghi capelli biondi.

Lena era nata a Klagenfurt e a occuparsi di lei c’era papà Walter, della madre non ho mai saputo molto a parte che tagliò la corda per tentare fortuna come modella. Ma l’abbandono era una medicina amara e ben distillata nella vita di Lena tanto che a 5 anni trovò il padre senza vita riverso sul letto per un’overdose di pillole. Dopo i funerali si trasferì dai nonni che dopo qualche mese decisero di farle cambiare aria, così la portarono a Udine dallo zio Thomas. Il fratello di Walter, col quale aveva un rapporto molto stretto, aveva aperto un ristorante carinziano dopo essersi innamorato di quella che diventò sua moglie, Giulia e fin dalla sua nascita Lena trascorreva qui ogni estate per giocare con le cuginette e parlare italiano. Purtroppo quella che sembrava una vacanza fuori stagione sarebbe diventata la sua nuova quotidianità. 

I primi mesi furono duri ma l’affetto della famiglia l’avvolgeva come una coperta in quelle giornate piovose e fredde che ti fanno venire voglia di rimanere a letto. Quando Lena scorrazzava per il ristorante Thomas, fiero di averne preso la custodia, non perdeva occasione di vantarsi con gli avventori di quanto fosse bello il suo piccolo fiore, Mein Blümchen!: quei lineamenti soavi, armoniosi le conferivano un’espressione adulta, quasi austera quando era triste o pensierosa. 

Lo zio cercava di trascorrere più tempo possibile con lei, la sua mano era grande, tozza e rugosa e si appoggiava sul corpo della bambina come una condanna, un peso che la portava giù, negli abissi di una profondità che a quell’età non poteva capire, alla quale non si poteva ribellare. Quella mano era onnipresente, prima sulla sua spalla, ora sulla sua testa, il presagio costante, l’avvertimento di ciò che sarebbe accaduto quando zia Giulia andava a fare la spesa o quando a tarda notte il resto della casa dormiva profondamente. 

Lena era riconoscente per essere stata accolta dai parenti come se fosse sempre stata con loro e per questo si sentiva in dovere di risultare socievole e disponibile ma col passare del tempo quella voragine che stava iniziando lentamente ad aprirsi la spinse a volersi isolare. Così iniziò a prendere in mano matite e pennarelli sviluppando una passione viscerale per il disegno e rivelando un talento indiscutibile: a soli 9 anni ritraeva il gatto Romeo in maniera realistica, a 17 aveva la piena padronanza del chiaroscuro, della prospettiva e delle proporzioni. Alle superiori il sabato pomeriggio era la nostra giornata preferita, dopo pranzo ci chiudevamo in camera mia e con la dark wave in sottofondo io scrivevo i miei racconti e lei dipingeva. Ricordo perfettamente quella volta, aveva appoggiato il pennello sporco di acrilico su un canovaccio, si era alzata dalla sedia per seccare il fondo della lattina di Moretti osservando il risultato a distanza, senza staccare gli occhi dalla tela. Mi avvicinai: era ritratto un uomo in primo piano, con il volto pesantemente sfregiato da uno squarcio che sembrava urlare e che correva dalla fronte fino al mento. Da quella fessura usciva una sostanza amaranto e verde che rendeva la pelle ancora più putrescente. L’ovale del viso era deformato, la bocca martoriata, arida sembrava voler pronunciare una sola parola ma senza riuscirci: pietà. La pelle gli si stava liquefacendo per aprire un varco verso un universo oscuro. I capelli appiccicati alla guancia sinistra come alghe marce intrise di catrame e ancora bagnate dalla violenza del mare conferivano un ulteriore senso di caos e impotenza. Per quanto inquietante, non avrei mai sospettato di trovarmi davanti a una tragedia preannunciata. 

Io e Lena abbiamo frequentato università diverse, io giornalismo a Milano mentre lei Belle Arti a Venezia, ci sentivamo quasi tutti i giorni ma ci mancava troppo parlare di persona, così qualche volta si prendeva il treno e una trascorreva dall’altra il weekend. Quando eravamo insieme sentivamo di essere nel posto giusto con la persona giusta, avevamo due cuori aperti e trasparenti come il vetro, ma non avevo capito che il suo sarebbe stato tanto fragile da andare in pezzi.

«Fornisca le sue generalità».

«Sara Ferrari, nata a Udine il 20 novembre 1989».

«Cortesemente legga quanto scritto sul foglio davanti a lei».

«Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza».

«Lei è molto amica dell’imputata, corretto?»

«Sì» dichiarai, continuando a grattarmi l’unghia del pollice destro dove lo smalto si era sbeccato e un’altra scaglia di colore stava venendo via.

«Prima di chiamare l’ambulanza e prima che la polizia potesse accorrere sul posto, ci descriva nei dettagli cosa vide quella notte del 20 novembre una volta entrata nell’abitazione della signorina Köhler».

Ero andata a fare la spesa e Lena mi aveva lasciato le chiavi dell’appartamento. Quando rientrai la casa era al buio e chiamai la mia amica. Nessuna risposta. Appoggiai le borse in cucina e salii le scale che portavano alla mansarda dove c’era il suo studio. Schizzi, cataloghi e barattoli di colore ovunque, non ricordavo che fosse mai stato così pieno di roba nell’ultimo periodo, sembrava il deposito abbandonato di un accumulatore seriale. Le poche lampade accese illuminavano una serie di quadri che ritraevano i volti di uomini dalle fattezze più raccapriccianti. Come un’inquisizione la luce metteva in mostra lo sfregio di questi personaggi in una sorta di carosello infernale. «Tutto bene Lena? Cosa fai lì impalata?» Ai suoi piedi, in un angolo in parte alla finestra, quello che mi sembrava un tappeto arrotolato alla bene e meglio era in realtà il corpo di Thomas. Aveva uno scalpello conficcato nel collo. Mi lasciai andare alla forza di gravità e mi sembrò di restare sul pavimento per dei minuti interminabili fino a quando Lena si mise in parte a me prendendomi la mano, la sua era gelida e insanguinata.

«L’imputata le aveva mai confidato l’intenzione di commettere il reato alla luce delle molestie che subiva dall’infanzia?» riprese il Pubblico Ministero.

«No, non lo sapevo». 

«Questo ha in qualche modo condizionato i suoi rapporti con la signorina Köhler?»

Mi voltai verso di lei, era pallida e immobile come una statua di cera, cercavo il suo sguardo ma Lena non c’era più. 

«Obiezione! L’opinione della teste non è rilevante ai fini del procedimento».