Daniela Borgato

Vento, portami via con te


Carissimi, 

vi ringraziamo per i gentili auguri

che ricambiamo di cuore.

Possa il 1949 essere apportatore

di quella felicità che meritate.

Tante affettuosità.

Giorgio e Fausto Finzi.


L’inchiostro è sbiadito, la calligrafia minuta. Ho trovato il biglietto nel comò della zia, insieme a vecchie foto, ricevute, santini. Chi sono Giorgio e Fausto Finzi? In tanti anni non li ho mai sentiti nominare.


La tangenziale è impestata di traffico. Luci che abbagliano dentro una nebbia che si taglia con il coltello. 

Arrivo dalla zia con un sacchetto di cioccolatini. Glieli infilo in velocità nella borsetta, senza farmi sgamare dall’assistente.

 “Ciao Zia”. 

Sorride e mi abbraccia. I capelli sanno di camomilla. “Che piacere vederti. Che bella sorpresa”.

“Sei bellissima, - dico - è venuta la parrucchiera?”.

Spalanca gli occhi, stringe la borsetta con le dita magre. “Non so, perdonami… la testa…”.

“Sei dimagrita?”. 

Si stringe nelle spalle, il pollice che lavora nervoso sulle pellicine dell’altra mano. 

“Oggi cos’hai mangiato?”.

“Non so. Ma era buono”.

Le carezzo la mano mentre succhia il cioccolatino.

Poi le chiedo sottovoce: “Senti, zia ti dicono niente questi nomi: Giorgio e Fausto Finzi?”.

Mi guarda, inarca le sopracciglia. Scuote la testa. "”Mi dispiace … no… non mi ricordo”.

Allora apro la borsa, tiro fuori il biglietto e lo poso sul tavolo. Lei lo guarda senza toccarlo. Legge in silenzio, le labbra che si muovono appena.

“Erano così gentili… educati”. La voce è bassa.

“Non me ne hai mai parlato. Perché?”.

Lei sospira. “Bisognava tenerli nascosti, stare attenti…”.

"Ma chi erano?".

"Ebrei… due fratelli… di Trieste”.

Sento un sasso chiudermi la gola.

Di colpo torna lucida. “Dove hai trovato il biglietto?”. 

“Nel cassetto del comò”.

Si morde la bocca. “E la chiave?”.

“Sotto il centrino”. Un’ombra di malinconia le attraversa gli occhi.

“Ma dove stavano?” insisto.

Un battito di ciglia. Poi, sottovoce: “In osteria, in una buca, nella caneva. Giorgio aveva un violino. Una volta siamo andati in campagna dalle mie cugine a vendemmiare l’uva nera. Noi tiravamo giù i grappoli e lui suonava sotto le vigne… io ho cantato. Le ragazze ridevano”.

“Ti ricordi una canzone?”.

Negli occhi passa un guizzo. 

“Vento, vento, portami via con te, 

raggiungeremo insieme il firmamento, dove le stelle brilleranno a cento…”

Il mio cuore batte e martella. “Quando è successo”.

Si stringe nelle spalle. “Ma… in tempo di guerra”. 

“E poi?”.

Corruga la fronte. “Non so. Sono tornati a Trieste… credo”. Strofina le mani sui pantaloni, lo sguardo lontano. Sorride. Non dice altro. 


Fuori la nebbia è ancora densa. Salgo in macchina e accendo il motore. “Nella caneva”. La voce di zia mi rimbalza in testa. I fari tagliano il nebbione. Non me ne hanno mai parlato dei due ragazzi nascosti in una buca, tra botti e damigiane impolverate. Perchè?

A casa butto la borsa sul divano e accendo il computer. Digito: Giorgio e Fausto Finzi, Trieste, 1943-1945.

Niente. Provo con altre parole. Nomi, date, città. Cercò ovunque. Ma non trovo nulla. In Facebook, trovo una pagina: Trieste e la memoria. Scrivo un post: Cerco notizie di Giorgio e Fausto Finzi. Durante la guerra si rifugiarono nel Padovano.

Invio.

I giorni passano.

E se ci fosse altro?

Torno a casa di zia Renata, rovisto di nuovo dentro il comò. E sotto una scatola vuota che odora ancora di talco un biglietto sottile  di un celestino sbiadito. 

Carissima Renata, 

ti scrivo dall'ospedale. Sto meglio, presto mi dimetteranno. Aspettami, presto verrò da te. Ti bacio. Tuo Giorgio.

Mi siedo sul letto, serro il foglio tra le dita e il cuore. 


L’ultimo dell’anno, una notifica. Scrive Mario Finzi: “So di chi parli. Fausto era mio padre. Giorgio mio zio. Se vuoi chiamami”. Segue un numero di telefono.

Dopo due squilli, una voce profonda. “Pronto?”.

“Buonasera… ho scritto su Facebook…”.

Un respiro dall’altro capo. “Sì. Ho letto. Non pensavo che qualcuno chiedesse ancora di Giorgio e di Fausto”. La frase gli esce ruvida. Come se pronunciare quei nomi lo riportasse di colpo in un brutto posto.

Un nodo mi chiude lo stomaco. “Ho trovato un loro biglietto. Vorrei sapere di più”. 

“Meglio parlarne di persona”. 


Trieste mi accoglie con un vento che sferza la pelle. L’aria sa di salsedine. Le pietre sono lucide di pioggia. Mi stringo nel cappotto e cammino veloce verso il Caffè San Marco. L’interno profuma di legno e libri antichi. Lui è già lì. Spalle larghe, capelli bianchi, occhi chiari che mi scrutano con cautela.

“Mario”.

“Marina”. 

Ordina un caffè nero per lui e un tè per me.

“Non pensavo che qualcuno si ricordasse ancora di Giorgio e di mio padre,” dice abbassando lo sguardo sulla tazzina.

“Ho saputo per caso che erano nascosti nella nostra osteria. Poi sono spariti”. 

Lui fissa un punto indefinito fuori dalla finestra. “È una storia complicata”.

Mi piego leggermente in avanti. “Ho tempo”.

Lo vedo esitare. Tornare indietro. “Mia nonna era cattolica. Per un po’ pensarono che bastasse. Ma non è servito a niente. Così si sono rifugiati in Veneto. Ma dopo l’8 settembre sono tornati a Trieste”. 

Si strofina le mani, come se avesse freddo. “Sai della Risiera?”. 

Annuisco.

“Li hanno presi e portati là. È stato nel ’44. In maggio”.

Si passa una mano sul viso. “Giorgio era quello più ribelle. Quello che non abbassava la testa”.

Chiude gli occhi un secondo. “Acqua fredda. Getti ad alta pressione. Giorno e notte”.

Mi si gela il sangue. Lo immagino nudo, tremante, la pelle che si spacca. Il terrore che ferma il respiro. 

“Lo volevano spezzare. Ma Giorgio non si spezzava. Non parlava. Non piangeva. Non gridava”.

Silenzio. Denso. Traboccante.

“Come hanno fatto…”

“A salvarsi? Una zia, amica di un tedesco…un pezzo grosso. Dopo una quarantina di giorni lui li ha fatti uscire. Sono rimasti nascosti fino alla Liberazione. Ma Giorgio… non era più lui”.

 “Cosa vuoi dire?”.

“Mio padre non parlava mai di quei giorni. Diceva solo che Giorgio, dopo… era diverso”.

Mi guarda. “Sentiva voci. Diceva che lo seguivano. Stava giorni accucciato in un angolo della camera. Urlava”. 

Vedo un guizzo di rabbia passare negli occhi celesti. “Era sopravvissuto…ma non è mai tornato davvero”. La sua voce è un soffio. “Anche dopo la legge Basaglia, quando hanno aperto i manicomi, non ha più voluto tornare. E non ha più toccato un violino”.  

“Renata lo ha aspettato per tutta la vita” dico sottovoce. 


La casa di riposo è silenziosa. La zia è seduta accanto alla finestra, la borsetta in grembo. Mi guarda, sorride. “Che piacere vederti!”.

Siedo accanto a lei. “Ti ho portato un pigiama nuovo, caldo e morbido”. 

“Grazie, sei gentile”. 

Le allungo un cioccolatino. Prendo fiato. “Zia… ho saputo di Giorgio”.

Un lampo le attraversa gli occhi. Le unghie affondano nel velluto dei pantaloni. “È tornato?”.

Le prendo le mani. “No zia, ma verrà presto”. 

Mormora qualcosa a labbra socchiuse. Una lacrima resta in equilibrio sulle ciglia prima di scivolare dritta sulla guancia. 

 “Lo aspetto. Sempre”.

Riprende a grattare con l’unghia sulla borsetta. “Da giovane ero bella sai? Sempre con i tacchi alti e cento corteggiatori. Ma aspettavo solo lui”. 

“Sei ancora bellissima, zia”. 

 Ride. “Va là, sono vecchia, non cieca”. 

Sussurra. “Quando Giorgio viene a casa, digli che sono qui. E digli… che il violino è sempre là”. 

“Il violino?”

 “Dentro la custodia, avvolto nel fazzoletto a fiori” dice sottovoce.

Un brivido mi attraversa la schiena. È questo amore che l’ha tenuta viva per tanti anni? 

“Chissà se mi riconosce… così vecchia” bisbiglia. 


Fuori, l’umidità della sera si incolla ai capelli. Mi volto verso la finestra. Renata mi saluta con la mano. 

 Vento, vento, portami via con te


Vorrei cancellare ogni cosa. Fare tabula rasa. Riportare indietro la storia.

Restituire il violino a Giorgio e la giovinezza a Renata. E musica vorrei. Risate vorrei. Una notte di stelle guizzanti. Baci e carezze. E un carretto pieno di felicità. Tutta la felicità della terra.