Maria Copat

Desiderare l'immenso mare


Oggi ho deciso di dedicare un po’ di tempo a me stessa, non lo faccio da tanto tempo, la mia meta è il mare. 

Caorle mi piace molto, ha ancora quell’aspetto selvaggio e caratteristico tanto che assomiglia a Venezia in miniatura.

Uno, due, tre, oplà! Con un piccolo slancio mi sollevo dall’asciugamano steso sulla sabbia. Camminando verso il mare lascio le mie impronte, mi avvicino alla riva e l’acqua fresca del primo mattino bagna i piedi facendomi salire un leggero brivido lungo la schiena. Sento lo scricchiolio delle conchiglie che si frantumano sotto il mio peso, proprio come quella camicetta strappata con le sue mani. 

Gli scogli si allungano all’interno del manto blu ma non disturbano la vista, mi ricordano quando da bambina correvo e saltavo da un masso all’altro sentendomi l’artefice di imprese grandiose. 

Il sole, da est, si rifrange sullo specchio d’acqua ed il suo lieve movimento lo tramuta in mille stelle lucenti, affiora un sorriso sulle mie labbra perché mi fa venire in mente la carta stagnola, che pensiero strano!

M’immergo trattenendo il fiato e lasciandomi scivolare nel regno di Nettuno, mi faccio accogliere nel suo grembo; espiro e osservo le piccole bolle d’aria salire verso la superficie, così come la mia chioma dorata mentre il mio corpo si adagia sul fondo. 

Che pace, che silenzio! Riesco a percepire il ritmico tamburo nel mio petto. Tengo gli occhi aperti per un po’ e sento che bruciano, l’acqua non è limpida ed allora li chiudo… 

Ogni pensiero svanisce mentre altri sensi si acuiscono; il tempo non ha dimensione, l’oblio mi cattura desiderando di stare in questo mondo, ancora ed ancora. 

Scorrono velocemente nella mia mente gli episodi accaduti nelle ultime settimane e mentre il mare, in cui sono immersa, mi dà un senso di quiete, al di fuori sembra che mi stia attraversando uno tsunami.

Mi ritrovo stesa sul pavimento, eppure, nonostante sia estate, non mi dà sollievo il refrigerio del marmo perché, in questo momento, lui mi sta sopra; non è questo che mi spaventa ma la furia cieca con cui mi si è scagliato addosso, sono i suoi occhi iniettati di sangue, il suo volto sfigurato dalla rabbia e quel ceffone in pieno volto che mi ha fatto girare la testa dall’altra parte; l’inseguimento per la casa nel tentativo di fuggire ma che invece sembra essere un luogo dai mille pericoli. Cercando la via di fuga, sbaglio e imbocco la terrazza della cucina, corro e, più corro, più mi rendo conto di infilarmi in un posto insidioso, basta una sua spinta e cado da un’altezza di dieci metri. 

Non so neanche come ma, con una sorta di dribbling, mi rinfilo in casa. Vengo placata, il corpo produce un tonfo quando cado a terra. Non riesco a muovermi, i polsi sono bloccati dalle sue ginocchia ed il peso, sul mio torace, è come un macigno, riesco a sentire il suo alito caldo sulla mia faccia e tutto il suo odio si espande come un’aura nera.

Urla. Sento le grida delle bambine terrorizzate che, ancora adesso, riecheggiano potenti nella mia testa; 

provo un senso d’annientamento e d’impotenza nel non riuscire a liberarmi per correre da loro. 

Senza togliermi gli occhi di dosso, con una lentezza disarmante, si solleva e mi lascia libera ma ora è evidente il suo potere dominante. 

Esce di casa, ed è tregua momentanea! 

Il giorno dopo ricevo un impressionante numero di messaggi denigratori e di minaccia: tra questi 29 sono di morte. Non riesco a distogliere l’attenzione dal cellulare perché, è così che posso comprendere il livello 

d’ instabilità in cui lui si trova; ciò mi fa stare malissimo e sono un fascio di nervi tesi.

Quando posso, esco di casa scortata, mentre a lavoro è una continua telefonata, mi manca la concentrazione ed ho paura di commettere errori, mi vergogno e con i colleghi cerco di giustificarmi e mi scuso di continuo, qualcuno di loro cerca di darmi coraggio, altri invece, mi evitano come se avessi la peste per paura di eventuali ripercussioni. 

Quando torno a casa sono costretta a sconnettere il telefono, non ho pace e mi sento esausta. 

Le tapparelle non vengono mai alzate. 

Mi aggiro tra le mura domestiche al lume di candela, sia di giorno che di notte, sperando non veda il bagliore della fiammella; se solo si dovesse accorgere che c’è qualcuno in casa, il campanello sarebbe un’incessante martellamento timpanico che, porterebbe all’esasperazione e alla chiamata delle forze dell’ordine che cerco di evitare, per non traumatizzare ulteriormente le bambine. 

Chiamo le bimbe che si trovano in un’altra stanza e Anna, che ha sei anni, corre da me, mette il suo piccolo indice davanti alle labbra e sussurra: “ sssshhh! Non facciamo rumore perché il papà potrebbe sentirci ed io ho paura di lui.” Penso che potrei sprofondare e, da quel momento, come dei supereroi indosseremo il mantello magico dell’invisibilità. 

Tutto diventa un gioco misterioso con loro, ci rincorriamo per le stanze e ci nascondiamo per poi riapparire e abbracciarci; le sollevo in aria, a turno, come fossero degli aeroplani sognando di volare lontano e vedere luoghi ricchi di prati fioriti, l’infinito mare, la fauna più stravagante e stare in cima al mondo ed osservare l’immensa vastità che ci circonda e semplicemente respirare aria di libertà inventando storie magiche di mondi incontaminati e, tutto ciò, avviene nel loro completo silenzio, quel silenzio che, però, vale più di mille parole.

Trascorre qualche giorno e mentre guido vedo una macchina che si avvicina a velocità sostenuta, è talmente a ridosso che le nostre auto sembrano un tandem, riconosco il conducente: è lui! 

Appena ha potuto si è affiancato inducendomi a spostarmi verso il ciglio mentre altre auto suonano il clacson, penso che prima o poi finirò fuori strada; piango terrorizzata ed ho paura di fermarmi, so che le sue mani fanno male ma ancora peggio, nella mia mente i pensieri sembrano un mulinello impazzito: che destino spetta alle mie bambine?

Non so più cosa sia la libertà, mi manca l’aria, sento un senso di asfissia, di oppressione, lo vedo in ogni luogo che frequento ed i messaggi nel cellulare, pieni di odio, continuano ad arrivare.

Non lo ferma neppure la relazione con la sua nuova compagna.

E’ diventata pura ossessione: io sono la sua ossessione! 

La mia vita è a brandelli, come quella camicetta rosso carminio, strappata con le sue mani; 

mi sento come uno dei bottoni che ora è penzolante, attaccato per miracolo col filo intrecciato nell’asola.

Non mi riconosco, mi sto riducendo ad una larva, non ho scopi se non quello di nascondermi e guardarmi continuamente alle spalle. Ogni volta che qualcuno si avvicina, invade il mio spazio vitale, è un sussulto ed intanto il tempo si perde come sabbia al vento.

Ora sento nel petto un fuoco che brucia: è l’aria residua che sta per terminare. 

Sta a me decidere: rimanere rinchiusa in questo mondo o vivere ed affrontare la paura…  

Qualcosa cambia, io cambio. Mi dico: “Ora basta, scegli di dimostrare coraggio ed esci dalla tua invisibilità!” Riaffioro dall’acqua.

La nostra casa non è più un posto sicuro; cerco un luogo protetto ed è così che incomincia il peregrinare da un’abitazione ad un’altra per non essere rintracciata mentre le forze dell’ordine procedono con l’iter che regolamenta chi compie gli atti persecutori.

Le bimbe sono più serene lontane dal luogo che dovrebbe essere il nido protetto ma che, invece, è diventato la casa degli orrori e del dolore. 

La voce nel silenzio diventa l’urlo di un guerriero, il ruggito di una leonessa che lotta per difendere i propri figli. Non rimango più nella sottomissione, ho smesso di vergognarmi, la paura sì, quella rimane; tollero poco chi arriva di soppiatto alle spalle, ma l’urlo non lascia indifferenti chi mi sta vicino, le istituzioni mi accolgono, mi proteggono e si stringono attorno a me. 

Sono fortunata nel raccontarvi questa storia perché ora posso semplicemente desiderare di immergermi nell’immenso mare della vita, in libertà.