Matilde Celestini

Raccontami una storia


Odore di carta invecchiata. Fregi intricati decoravano gli angoli delle pareti, e le pagine del libro scorrevano annoiate sotto i miei polpastrelli, sottili e fragili. Una biblioteca.

“Ovidio?” disse la voce alle mie spalle, cristallina e vivace, e non potei fare a meno di girarmi.

Lei era lì, un sorriso immenso stampato in volto, mentre mi scrutava come se fossi una creatura mai vista. Indicò il libro sulla mia scrivania, e le sue dita affusolate lisciarono quella carta come il più prezioso dei tessuti. 

“Stai leggendo le ‘Metamorfosi” di Ovidio, giusto?” chiese, il suo tono risuonante di curiosità, e annuii. 

La sua risata divertita avvolse la piccola stanza. 

“Allora, raccontami una storia”. 

Rimasi interdetto di fronte alla sua richiesta. “Cosa?” balbettai, ma il suo sorriso si allargò. 

“Una storia. Mi sembri uno che con le storie ci sa fare.” disse semplicemente, con un cenno alla penna d’oca che mi rigiravo fra le dita, ancora imbevuta d’inchiostro. 

“Dai, racconta!” mi esortò, e io non seppi fare altro.

Le raccontai di Giasone, il giovane eroe a capo degli Argonauti, del crudele re Eeta e delle temibili fiere che riusciva a chiamare a sé, e della sua giovane figlia Medea, esperta nelle arti magiche. Raccontai delle belve che Giasone aveva dovuto affrontare, e l’aiuto che aveva ricevuto da Medea. Raccontai del bellissimo vello d’oro, custodito da un enorme drago.

Quando finii, non mi rimaneva più voce. Alzai lo sguardo e incrociai quello di lei, mentre mi fissava con aria complice, come se l’avessi resa partecipe di un mio segreto. Tra di noi vibravano come corda di arco le mie ultime parole, ma fu lei a scoccare la freccia, regalandomi un altro dei suoi enigmatici sorrisi.

“E bravo, mio cantastorie” disse.

Ed io fui dannato.


La brace nel fuoco scricchiolava come ghiaia, accompagnato dal flebile ticchettio della pioggia sui vetri. Accanto al camino, una pelliccia giaceva abbandonata per terra, impregnata di acqua piovana.

Lei era seduta di fronte a me, sul letto, il tessuto verde della sua gonna che ricadeva attorno alle sue gambe, costellato da gocce d’acqua. Lo sfiorò con le mani, e alla luce della lampada i suoi anelli rifulsero come gemme.

“Non sareste dovuta venire da me sotto la pioggia. Avremmo potuto incontrarci un altro giorno” mormorai, ma la sua risata mi interruppe. Scosse la testa, e i suoi ricci rossi ondeggiarono candidamente.

“Sai quanto ci tengo al nostro appuntamento settimanale. E dovresti smetterla di darmi del ‘voi’. Mi fa sentire vecchia.” rispose lei, e un colpo di tosse la scosse. Quando abbassò il fazzoletto con cui si era coperta, le gocce di sangue che lo macchiavano erano poche, come al solito. 

Ma c’erano. Intrise nel tessuto, come un’inquietudine senza nome.

Aleggiò brevemente un silenzio riempito dal suono della pioggia, prima che lei lo spezzasse frugando nella sua borsa. 

“Stavolta ho portato io qualcosa” disse, ed estrasse un libro finemente rilegato, il titolo a lettere dorate che recitava: “Iliade”. Lo presi dalle sue mani, ammirando il profilo di Omero sapientemente reso nella pelle, la ricca consistenza delle pagine, le lettere in greco. 

“Raccontami una storia”.

La guardai negli occhi. Pensai che fosse bellissima.

E raccontai. Raccontai delle temibili Amazzoni, donne coraggiose che combattevano come uomini. Raccontai di come si tagliavano il seno destro per meglio tirare con l’arco. Raccontai della loro bellissima e valorosa regina, Pentesilea, la quale le aveva guidate in battaglia al fianco dei Troiani, ed era caduta sul campo per mano dello stesso Achille. 

Ma quella volta era diverso. Quella volta, i suoi occhi non seguiva gli ampi gesti delle mie mani, non si illuminava ad ogni cambio di tono. 

No. Guardava me. 

Mi accorsi a malapena che si era alzata, non udii il fruscio della sua gonna fino a quando non fu davanti a me. Le sue mani sfiorarono le mie, mi tolsero il libro e presero il suo posto. 

“Basta così”.

E poi, le sue labbra furono sulle mie. Il cantastorie e la sua musa, uniti tra le fila della fantasia, sospesi leggeri come farfalle. 

Il fazzoletto cadde a terra, e nessuno dei due lo notò.

Nel mondo delle favole non c’è posto per il sangue.


La sabbia della riva era fresca sotto i miei piedi. Osservai l’acqua infrangersi lungo la battigia, creando piccole creste spumeggianti. Il suono dei gabbiani accompagnava i miei respiri.

Lei era al mio fianco. Sentii le sue dita intrufolarsi tra le mie.

Era stata particolarmente silenziosa, quel giorno. Non aveva detto una parola durante il viaggio, limitandosi a fissare il panorama fuori dalla carrozza, il mento poggiato sul pugno, pensierosa come un pugile prima di una lotta. 

Era bellissima, come sempre. Ma le vedevo, le sue guance infossate, le occhiaie sempre più pronunciate. I segnali di qualcosa che la stava togliendo a me. Qualcosa su cui la mia mente incredibilmente, stupidamente innamorata, inciampava sempre. 

Lei si appoggiò a me, il suo volto sulla mia spalla, e sospirò. 

“Raccontami una storia” disse, il tono spento. Il suo sorriso ora era solo un fantasma che le aleggiava sulle labbra.

Raccontai di Achille e Patroclo, il semidio e il mortale, cresciuti insieme tra le pendici del monte Pelio. L’auriga e il guerriero. Raccontai di Patroclo che si era gettato in battaglia ignorando le raccomandazioni del suo compagno, della lancia che gli aveva ferito il ventre, la sua anima che era scesa nell’Ade, “rimpiangendo il proprio destino, lasciando la forza e la giovinezza”. E ad Achille, altro non era rimasto che ira. Mènis.

Lei mi lasciò finire, ascoltando in silenzio. Sembrava spenta, ma quando alzò la testa per incrociare il mio sguardo, ecco che la rividi, la piccola scintilla nei suoi occhi, brillante come una stella, tanto da farmi dimenticare i fazzoletti sporchi di sangue.

Schiuse le labbra come per parlare, ma subito dopo le richiuse con un cenno del capo. Il suo scialle sfiorò la mia spalla quando mi superò, mormorando: “Andiamo”.

E io ero troppo innamorato per accorgermene, ma mi era scivolata via. Come acqua.


I fregi erano gli stessi. Erano sempre gli stessi.

Ma quella volta no. Quella volta avevano i contorni sfumati, come pennellate troppo fugaci per catturare quel momento. 

Ronzio. Ronzio, ovunque. Ne aveva le orecchie piene, la bocca, le mani, tutto il corpo. Solo ronzio. Voleva graffiarsi il petto e farlo uscire, farlo colare dalle sue membra.

Povero cantastorie, avrei voluto dirgli. I tuoi racconti sono finiti.

Lei era lì. La musa, seduta su una poltrona, le mani che stringevano un fazzoletto, gocce di sangue sparse su di esso come costellazioni.

Il cantastorie barcollò verso di lei, traendo respiro come un annegato. Guardai le sue mani aggrapparsi alle pieghe della sua veste. 

E lei fissava me. I suoi occhi non brillavano di stelle. Erano pozze di marrone.

“Raccontami una storia” disse, ma io non ero il cantastorie. Lui era a terra. Quando aprì le labbra per parlare, ne uscirono solo farfalle.

“Raccontami una storia” insistette, ma non avevo più nulla da dire.

E quando mi svegliai in una pozza di sudore, il ronzio era sparito. Le mie mani tremanti tastarono le coperte vuote. Vuote come il cielo senza stelle. Forse se le era portate via lei, quando aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta, quando la sua presa sui miei polsi era svanita.

Le lacrime arrivarono, sconquassandomi con singhiozzi dolorosi, ma nemmeno strapparmi i capelli avrebbe rimediato al mio errore, a come avevo ignorato i sintomi di quel morbo fino a che non era stato troppo tardi. 

Se n’era andata, lasciando questo povero stolto a crogiolarsi tra le sue storie, senza più una meta, senza più stelle. Lo capivo ora, il desiderio. De- sidus. Quelle stelle io le avevo viste, nelle sue lentiggini, nei suoi occhi, me ne ero innamorato.

Un cantastorie senza musa, pensai mentre affondavo il volto tra le coperte, lasciandovi le mie urla. 

Quasi ironico.