Mitia Chiarin

Ipotalamo


Il primo è stato Charlie. Era il mio cane e ogni volta che arrivavo a casa lui era così felice che poteva roteare su sé stesso dalle 15 alle 20 volte prima di saltarmi in braccio e baciarmi la faccia. Non era il mio cane, era di mia madre e quando lei è morta non l’ho abbandonato. Anche se, ammetto, ci avevo pensato. 

Ed è stato lui il primo che ho sacrificato per tentare di capire perché io, ultracinquantenne, benestante, con un lavoro di tutto rispetto, professore a Ca’ Foscari, non ho mai provato desiderio o amore. In effetti, va detto che non lo provo per niente e nessuno: sia essere umano, animale, opera d’arte, statua o scrittura mi possa trovare davanti.

Non so bene perché sono nato così ma da quando sono adolescente mi sento diverso. I miei compagni di scuola si innamoravano follemente della compagna di banco. Io questo sentimento, il desiderio, non lo ho mai provato. Non ho manco mai amato mia madre. Quando mi hanno telefonato per dirmi che era morta non ho pianto. Crescendo, però, ho sentito la necessità di capire perché sono così. 

Sono un uomo senza desideri e l’unica cosa che vorrei oggi, che mi sono realizzato e costruito una rispettabile posizione sociale, è poterlo fare: desiderare. Come fanno tutti. Perché il desiderio è un atto di fiducia verso il futuro. 

Dicevo di Charlie, il primo. Quando è morto di vecchiaia io non ho pianto. L’ho visto chiudere gli occhi, fermare il respiro affannato dentro il petto. E allora mi sono detto che era l’occasione giusta per capire come era fatto il suo cuore. E usarlo per capire dove nascevano desiderio e amore. Era lui il soggetto perfetto per la mia ricerca. Prendere il suo cuore di cane, perennemente innamorato di me, e tentare di studiarne il funzionamento. E scovare il punto dove l’amore nasce. Ma è stato tutto inutile.

E poi c’è stata Ludmilla. Aveva 30 anni, parlava male l’italiano ed era arrivata alla porta di casa mia rispondendo all’annuncio di ricerca di una donna delle pulizie. Aveva solo un visto turistico, era orfana. Era perfetta. 

Veniva a casa mia, in viale Garibaldi a Carpenedo, tre volte la settimana e avevo notato che nei giorni in cui sapeva mi avrebbe trovato nello studio, intento a lavorare, si truccava e aveva sempre il vestito migliore. Un giorno, dopo l’ennesima conversazione che mi chiedeva di sostenere, per aiutarla a migliorare il suo italiano, mi chiese come dicevamo, noi italiani, quando amavamo una persona. Io risposi, freddo: “Si dice: Ti amo”. E allora lei mi guardò intensamente e lo disse: “Ti amo, professore”. 

Io non dissi nulla. Ma capii che l’occasione era arrivata. La invitai a cena la sera stessa e lei subito ne fu lusingata. La andai a prendere in auto davanti alla stazione di Mestre, la portai a cena all’hotel Bologna e poi la riportai a casa, dandole un freddo bacio sulle labbra. Perché così si fa nei film.  Lei uscì dall’auto, con le guance in fiamme. Emozionata. 

Aspettai qualche mese, i nostri dialoghi erano sempre più intimi. Lei mi chiedeva se la amavo anche io. Lo chiedeva mentre spazzava la cucina, mi stirava le camicie, quando eravamo al ristorante per il settimanale appuntamento fuori. 

Una sera al rientro dal ristorante mi chiese se volevo salire da lei. Mi spiegò che, anche se divideva la casa con alcune connazionali, non mi avrebbe visto nessuno perché erano tutte tornate a casa con i furgoncini per fare visita ai parenti. Eravamo soli. 

Annuii e così mi ritrovai da solo con lei nella sua stanzetta. Dentro di me montava una sola idea, portare a termine l’esperimento. 

La stanzetta era spoglia, con alcune orribili bambole di pezza, che sicuramente erano parte del suo bagaglio di viaggio verso l’Italia dall’Est Europa.

Si slacciò la camicetta e mi mostrò il suo abbigliamento intimo: una canottiera di pizzo che era un tempo bianca e ora giallognola. Tessuto vecchio, un lascito, forse, della nonna. Tese le mani verso di me e io velocemente le presi i polsi ed estrassi la lametta. La aiutai nella caduta sul letto. Dai polsi tagliati si allargava una pozza di sangue nero che invadeva lenzuola e materasso. Lei, dopo un urlo iniziale di terrore e stupore, non disse più nulla. Mi fissava con quei suoi occhi azzurro cielo, la bocca aperta nel tentativo di respirare mentre io tiravo fuori il mio bisturi, che tenevo in una speciale tasca interna della giacca. Estrassi il cuore che ancora batteva e corsi giù per le scale tenendolo avvolto in una coperta. Nel bagagliaio della macchina era pronto un mini-freezer per tenerlo fresco fino a casa. Non chiusi neanche la porta di quella casa, dietro di me. 

Lungo la strada mi fermai in un parcheggio, scesi dall’auto, aprii il bagagliaio, e mi misi a studiarlo, quel cuore che per pochi minuti aveva pulsato nella mia mano. Ma, niente, non ci capii niente. Da dove usciva il desiderio? Da dove l’amore? Era solo un grumo di carne, sangue, ventricoli. 

Prima di Ludmilla, sì, signor commissario, ce ne sono stati altri di cuori strappati. 

Il benzinaio sulla autostrada A4 che mi aveva chiesto di fare in fretta benzina perché voleva chiudere e andare dalla sua donna. Era un uomo innamorato, lo si vedeva ad occhio nudo.

E poi la vedova che andava in chiesa a sistemare le panche per la messa domenicale e che aveva cominciato a ronzarmi attorno chiedendomi se credessi nell’amore per Cristo. Era pur sempre amore, dichiarato, anche quello.

E poi, sì, quella coppia di fidanzatini al parco di San Giuliano, intenti a far l’amore in tenda. In quella occasione, ho fatto casino. Lui ha resistito tanto, è stato un osso duro. Ha cercato di fermarmi in tutti i modi. Non avevo fatto i conti con la sua muscolatura atletica. Alla fine, dopo un disastro di sangue nella tenda, ne avevo due, di cuori, fermati nell’atto del coito. Che mi si dice, è il massimo punto del desiderio quando il romantico si mescola all’impeto sessuale. Ma mi sono serviti a poco, come il cuore di Ludmilla, che amava me che l’ho ammazzata.

E allora mi sono rimesso a studiare. Io, con la mia laurea umanistica, ho letto su internet di studi e ricerche e ho scoperto che avevo perso tempo, per anni. L’amore, il desiderio, nascono dal cervello. Dall’ipotalamo e dall’attivazione della dopamina. Insomma, se si desidera è grazie agli ormoni che il nostro cervello produce. Ma l’ipotalamo è annidato all’interno del cervello ed estrarlo è difficile e comunque non serve a nulla. Perché sono i neurotrasmettitori ad essere fondamentali per desiderare e amare. L’unico ipotalamo che avrei dovuto analizzare era, forse, il mio. Ma da morto non potevo studiarmi.

 Charlie, Ludmilla e tutti gli altri sono stati solo un percorso nel cammino del mio bisogno di sapere. Nessun rimorso, quindi. Ho solo perso tempo.

Sono cresciuto pensando di avere un cuore inadatto al desiderare, ma ero sereno. Io ero importante nel mondo perché avevo un cervello supremo, che tutto poteva capire e conoscere. E invece ho scoperto che era proprio il mio cervello quello inabile. Intelligente ma senza desiderio. Continuare sarebbe stato inutile. Per questo sono venuta a trovarla. Per raccontare tutto, signor commissario.

 Li ho letti i giornali, sa. Ho letto le cronache dei ritrovamenti dei cadaveri, dei suoi dubbi, delle relazioni al magistrato della Procura sulla possibile esistenza di un serial killer, collezionista di cuori, che si muoveva tranquillo nella provincia di Venezia. Ho letto della sua stanchezza nel non trovare uno straccio di indizio che portasse al responsabile. Eccomi qua, commissario, le rendo giustizia del suo lavoro di ricerca. Il suo lavoro è servito a qualcosa. Il mio no. Sono io l’assassino. 

Ma non sono un volgare pazzo. Sono un uomo che, semplicemente, voleva desiderare e amare. Come gli altri. E non ci è riuscito. 

Al giudice dica che ho lasciato un testamento, chiuso dentro un cassetto della mia scrivania: al momento della mia morte il mio corpo venga donato alla scienza. Cerchino gli scienziati, quelli veri, l’origine della mia aridità.